2018-04-13

Da luglio dello scorso anno Peschiera aderisce allo Sprar, progetto di accoglienza per richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale, e, nonostante un iniziale mix di diffidenza e passività, l’iniziativa sembra aver dato il via a un piccolo e lento processo di sensibilizzazione. «Da quasi un anno il Comune è diventato l’ente titolare di un progetto Sprar già sottoposto all’autorizzazione ministeriale e di cui Passepartout, contratto di rete composto da cinque diverse cooperative sociali, è l’ente gestore», spiega Francesco Purpura, 45enne coordinatore del programma. «Al momento stiamo ospitando sul territorio 12 persone, tra cui una famiglia siriana con 4 figli, 5 ragazzi senegalesi e uno proveniente dal Benin. La famiglia è arrivata attraverso un corridoio umanitario, impostato dal ministero, direttamente da un campo profughi in Libano dove aveva passato gli ultimi 5 anni dopo essere fuggiti dalla guerra in Siria. I giovani africani, invece, sono arrivati attraverso l’ormai tristemente celebre iter marittimo con tutto quello che ne comporta e sono riusciti a entrare in questo progetto dopo una lunghissima attesa nei centri d’accoglienza milanesi». Sprar non vuol dire però solo accoglienza. Attraverso questo sistema, infatti, si mira a favorire un graduale inserimento dei migranti all’interno del tessuto sociale. «Lo Sprar agisce a 360 gradi per la tutela e il benessere degli ospiti», racconta il responsabile. «Con questa iniziativa si vuole in primo luogo fornire il necessario per una permanenza dignitosa, quindi un letto, vitto, ricariche telefoniche, connessione internet, vestiario e materiale igienico sanitario. Inoltre si lavora anche sull’aspetto più propriamente medico, accompagnando la persona nell’inserimento nel sistema sanitario nazionale in modo che possano essere monitorate le sue condizioni di salute e garantite le prestazioni mediche necessarie allo svolgimento di una vita sana. Dopodiché ci occupiamo di formazione linguistica e culturale, proponendo corsi formativi e percorsi nell’ambito della scuola dell’obbligo, e di orientamento professionale, che prevede un iter di ricostruzione delle proprie competenze, un bilancio delle stesse e successivamente l’accesso a corsi di formazione professionale finalizzati alla possibilità che abbiano una conclusione in termini di assunzione. Infine si passa all’accompagnamento giuridico documentale che consiste nell’espletare pratiche burocratiche amministrative che permettono di acquisire il permesso di soggiorno, un documento d’identità, il codice fiscale, la tessera sanitaria, il documento di residenza, il medico di base e l’iscrizione all’anagrafe comunale». Oltre a questo c’è poi un percorso trasversale che gli operatori promuovono per sviluppare un crescente processo di integrazione e socializzazione col territorio attraverso attività sportive, volontariato e la partecipazione alla vita pubblica e culturale della comunità. Insomma, attraverso lo Sprar si prova a mettere il migrante nelle condizioni migliori per ripartire e crearsi un futuro. Se però il campo d’azione degli operatori di Passepartout è davvero ampio, le possibilità di riuscire a entrare nel progetto non sono sempre tantissime e spesso richiedono tempi lunghi. La condizione base è sempre che l’extracomunitario abbia fatto domanda di protezione internazionale o abbia già ricevuto un titolo in questo senso. Successivamente il servizio centrale nazionale Sprar, a seconda delle richieste ricevute, applica un sistema di assegnazione per priorità. «Devo dire che anche se all’inizio le persone si sono rivelate piuttosto diffidenti, a parte chi compone il tessuto associativo e religioso di Peschiera, ora in molti stanno dimostrando una sensibilità e una solidarietà che forse neanche loro credevano di avere», conclude Purpura. «Nonostante questo, però, continuiamo ad avere difficoltà nel reperire appartamenti da prendere in affitto. Per funzionare meglio il sistema dell’accoglienza dovrebbe uscire dalla logica emergenziale e puntare molto di più sul coinvolgimento del territorio e dei cittadini, amalgamando i progetti di accoglienza con il welfare destinato alle persone in stato di bisogno. Dobbiamo imparare a ragionare in termini di welfare universale senza fare differenze tra poveri autoctoni e poveri stranieri. Io, personalmente, dopo 25 anni di lavoro nell’ambito del sociale, ho imparato che la tutela non ha colore, né razza, né religione».
Mattia Rigodanza