2018-05-04

Una vita votata alla musica, il repentino avvicinamento a una delle band più influenti del panorama rock italiano anni ’90 e concerti che ancora oggi fanno registrare il tutto esaurito: è questa la storia di Giorgio Prette (ora residente a Mezzate, ma cresciuto a San Felice) per più di vent’anni batterista degli Afterhours e strettissimo collaboratore di Manuel Agnelli.
Come hai mosso i primi passi nel mondo della musica?
«Mi sono avvicinato da bambino come ascoltatore. Era la fine degli anni ’60, epoca d’oro del rock, mio padre mi ha fatto conoscere i Beatles e mia sorella maggiore mi faceva ascoltare dei dischi pazzeschi. Dai Deep  Purple a Crosby Stills Nash and Young, dai Led Zeppelin ai Rolling Stones: gli anni ’60 e ’70 hanno prodotto alcuna della musica migliore di sempre. Fare musica invece non credevo sarebbe stata la mia professione all’inizio, ho iniziato a suonare con gli amici di San Felice quasi per gioco. A un certo punto ci siamo avvicinati ai Ritmo Tribale, che a quei tempi erano una realtà già affermata, e quando uno dei miei amici è riuscito a entrare nella band sono entrato in crisi, mi sono reso conto di non aver ancora sviluppato un talento per nessuno strumento. Poi ho assemblato una batteria nella mia cantina e ho deciso che avrei fatto quello. E da lì non ho più smesso di suonare».
Ci racconti gli anni della gavetta?
«Ho avuto un paio di gruppetti con amici conosciuti nell’ambiente musicale di allora, ma è stata una fase piuttosto breve. Un giorno ero in università e mi arriva la voce che gli Afterhours cercavano un batterista. Non li conoscevo neanche, ma si diceva che avevano le carte in regola per sfondare. E così mi proposi. Il resto è 25 anni di storia, dal 1990 al 2014».
Come tantissimi gruppi anche voi i primi anni cantavate in inglese, come mai questa tendenza?
«Perché il genere che proponevamo in Italia non era molto seguito, c’erano poche vie di sbocco. Noi e altre band dovevamo puntare al mercato estero, perché avevamo più possibilità di essere apprezzati fuori dai confini. Europa e Stati Uniti sono sempre stati il nostro obiettivo. A un certo punto però le cose hanno cominciato a cambiare. Intorno al ’92, le case discografiche erano in crisi e cercavano nuovi artisti e alcuni gruppi provenienti dal nostro stesso ambiente hanno trovato la loro fortuna. Qualcosa stava cambiando, era palpabile. Stava crescendo una scena italiana e noi volevamo farne parte: abbiamo cambiato approccio e iniziato a cantare in italiano».
Quando hai iniziato a percepire che il successo stava arrivando?
«Il primo cambiamento a livello di affluenza di pubblico ai concerti è avvenuto tra il ’95 e il ’96 dopo l’uscita di “Germi”, un disco rivoluzionario per il rock italiano di quegli anni che ha subito ottenuto ottime recensioni. A quei tempi eravamo in scuderia con artisti come i Casino Royale e Elio e le storie tese. La conferma e la consacrazione definitiva degli Afterhours è arrivata con “Hai paura del buio?”. In realtà sono convinto che i presupposti per l’ascesa ci fossero già da un paio di anni, “Germi” aveva sdoganato il nostro nome e dato la possibilità di evolverci a livello artistico partendo da una base solida. “Hai paura del buio?” è un disco perfetto, completo, che riunisce rock, punk, pezzi con solo pianoforte e voce, e pezzi con violoncello e violino; 19 tracce che rispecchiavano la nostra crescita. Erano anni difficili, eravamo senza casa discografica e pieni di debiti, ma sapevamo che stavamo producendo un lavoro davvero valido e importante».
E così siete entrati anche nel mondo delle major discografiche, giusto?
«In parte sì. Ci siamo presentati all’etichetta Mescal con un’opera completa sapendo che ce l’avrebbero pubblicata. Negli anni ’90 le dinamiche discografiche assomigliavano molto a quelle politiche ed è per questo che abbiamo sempre cercato di starne fuori il più possibile. Gli artisti che entravano subito nell’orbita di etichette enormi, come la Universal, alla fine venivano risucchiati e si perdevano. Noi abbiamo fatto un percorso diverso che ci ha permesso di crescere con calma ed esprimerci senza essere influenzati. La nostra fortuna è stata quella che era anche la nostra grande frustrazione, ovvero di non essere mai stati ancora presi in considerazione. Il contesto Mescal era fuori dagli schemi, era una struttura piccola ma molto agile nella quale potevamo muoverci liberamente. I passaggi decisionali erano pochi e veloci. Siamo rimasti con loro fino al 2005, quando ci siamo resi conto che potevamo puntare a qualcosa di più grande. Alla fine certe esperienze, soprattutto a livello internazionale, hanno bisogno della spinta giusta da parte di apparati che possono permettersi investimenti massicci. Parlo soprattutto dei tour all’estero, a cui non potevamo e non volevamo rinunciare».
Ecco, parliamo del palco. Lo avete condiviso con alcune vere e proprie icone della musica. Cosa si prova?
«Abbiamo aperto il concerto dei Rem nel ’99 ed è stato fantastico. Eravamo allo stadio Dall’Ara di Bologna davanti a 15mila persone. Loro sono stupendi, ci ha colpito il loro essere umili nonostante la loro notorietà mondiale. Avrebbero potuto comportarsi da vere star invece ci hanno ascoltato per tutto il tempo da sopra il palco e alla fine ci hanno dedicato anche una canzone. Poi nel 2002 abbiamo aperto il concerto dei Red Hot Chili Peppers, altra esperienza magnifica».
Credi che nei vostri testi si possa trovare un messaggio politico?
«No, non è mai stata nostra intenzione. La nostra musica nasce dall’osservazione della realtà che ci circonda, quindi ci si può tirare fuori un certo tipo di messaggio sociale, ma non politico».  
Quali sono i gruppi che più vi hanno influenzato?
«È difficile fare dei nomi, in quanto abbiamo pescato un po’ dappertutto. All’interno della band ascoltiamo musica diversa l’uno dall’altro e in periodi diversi della nostra carriera. Quando Manuel ascoltava i Velvet Underground io magari seguivo i Kiss. Poi ovvio che ci siano mostri sacri come i Joy Division o i The Smiths che hanno influenzato un po’ tutti. Crescendo poi le influenze diventano sempre più difficili da individuare si allarga il ventaglio dei tuoi ascolti. Ci sono dei periodi in cui non ascolto nulla e altri in cui ascolto jazz o musica classica o ghetto music. Se invece devo fare nomi di batteristi, dico John Bonham e Ringo Starr: immensi».
Come è stato lavorare con un mostro sacro della musica come Mina?
«Semplicemente fantastico. Il primo approccio è stato nel ’97, all’epoca eravamo molto vicini a sua figlia e lei faceva ascoltare la nostra musica a sua madre. In quegli anni ci chiese di poter fare una versione di un nostro brano contenuto in “Germi”, mentre la vera collaborazione c’è stata nel 2009 con “Adesso è facile”. Il progetto iniziale prevedeva che noi pensassimo alla musica e all’arrangiamento mentre lei alla parte di canto. Poi è nato il duetto con Manuel e devo dire che il risultato è stato sorprendente. Mina è una persona molto semplice e autentica, al contrario di quanto in molti credano».         
Progetti futuri?
«Nel 2014 ho lasciato gli Afterhours per divergenze all’interno del gruppo e da allora con loro ho fatto solo concerti come l’ultimo al Forum che è andato sold out. Cambiare serve nella crescita di un’artista, soprattutto dopo così tanti anni di collaborazione. Ho messo su un trio con Xabier Iriondo e Paolo Saporiti: i Todo Modo. Abbiamo realizzato due dischi e ora stiamo inserendo un nuovo elemento nella band. A gennaio spero arrivi un nuovo disco».
Mattia Rigodanza