2019-02-15

La cosa davvero assurda (e vergognosa) è che quasi tutti conoscono il volto di Fabrizio Corona e in pochi quello di uno scrittore come Andrea Cotti, che al fotografo dei vip gli mangia in testa come e quando vuole. Ingiustizie assurde, lo sappiamo. Ma noi non ci stiamo e allora eccoci a chiacchierare con Andrea, autore del recente romanzo “Il cinese”,  ma anche sceneggiatore di film e di numerose fiction, una su tutte “L’ispettore Coliandro”, per ridare la giusta dignità a un mestiere meraviglioso. Preparatevi perché ne sentirete delle belle. E allora partiamo.
Quando ti ho proposto un’intervista per inFolio mi hai risposto: “Solo a sentire Martesana mi hai convinto”.  Come mai visto, che sei originario di San Giovanni in Persiceto, in provincia di Bologna, e vivi a Roma?
«Perché da giovane, per tre anni, ho collaborato con il sistema bibliotecario Est Milano e spesso ero a Gorgonzola. Ho ricordi bellissimi di quel periodo, come le lunghe passeggiate lungo il naviglio Martesana, giornate spensierate. Entravo per la prima volta nel mondo dei libri. E anche dell’alcol, dai». (sorride)
Capisco. Visti i tuoi molteplici impegni, innanzitutto come ti definiresti?
«Scrittore. Alla sceneggiatura ci sono arrivato dopo, grazie ai miei romanzi che sono diventati dei film. Contemporaneamente Carlo Lucarelli e Giampiero Rigosi, con cui avevo lavorato da apprendista, mi hanno chiesto se volessi collaborare con loro alla stesura dell’ispettore Coliandro. Ma io resto uno scrittore. So fare questo e mi sono abituato a vivere con il conto corrente che oscilla. Se avessi scritto canzoni ora sarei più ricco».  
Dai, partiamo dai tuoi libri diventati in seguito film...
«“Un gioco da ragazze” fu pubblicato nella collana Colorado Noir, una costola di Colorado Film. Il progetto di farlo diventare un lungometraggio c’era già. E così è nato il film, liberamente ispirato al libro».
In quei momenti è più la gioia di vedere un tuo lavoro diventare un film o più la trsitezza quando ci si accorge che ci sono profondi cambiamenti?
«In effetti vedere certi tagli fu un piccolo dolore. Secondo me quel film fu un’occasione sprecata. Si potevano aprire nuove strade, però in quel periodo i film di genere noir andavano piuttosto male e quindi la produzione ha preferito puntare sul rapporto morboso dei tre ragazzini protagonisti».
Quindi è più la delusione?
«Ma no, dai. Fa parte del gioco. Essere scelto ti inorgoglisce. E poi, in produzione, c’era Gabriele Salvatores. Fa fico dirlo agli altri, ma anche per te stesso».
Ad ogni modo, per te più bello il libro del film, giusto?
«In questo caso sì. Ma sono onesto, visto che ti dico che invece il film “Marpiccolo”, tratto dal mio romanzo “Stupido”, è più bello del libro. Era più maturo. E, quando è stato proiettato al Festival del Cinema di Roma, la standing ovation finale di circa 250 ragazzi  che gremivano la sala è stata un’emozione incredibile».
Arriviamo alla sceneggiatura di Coliandro?
«È una delle esperienze più belle della mia vita. Ci trovavamo a casa di Lucarelli e tra battute, bevute e paste pesantissime, si scriveva. Era una cosa tra amici e questo credo sia il segreto del suo successo».
Quali sono le difficoltà di scrivere una fiction?
«Coliandro è più facile di altre. Perché dura 100 minuti e sono puntate autoconclusive. Di fatto quindi sono dei film. Le vere difficoltà sono quando devi scrivere sulle cosiddette linee orizzontali, di cui tu hai solo un pezzo da produrre. Esiste una “bibbia della serie” con tutte le tracce, puntate e personaggi».
Si conoscono prima gli attori che interpretano le fiction? E, nel caso, questo aiuta?
«In questo caso sapevamo che Coliando sarebbe stato intepretato da Morelli e che i registi erano i Manetti Bros. Quindi non esageravamo con la gag, consapevoli che avrebbero già caricato loro sul set. Ho scritto anche la sceneggiatura di “Squadra antimafia”, e lì invece non conoscevo gli attori. In una puntata, l’attore protagonista si vede seminudo in doccia e sono stati subissato dai messaggi di amici che mi prendevano in giro, ma io non avevo mai scritto quella scena. Succede anche questo».
Passiamo al tuo ultimo, e strepitoso aggiungo io, romanzo “Il cinese”. Nell’epoca di gialli, noir, crime, thriller... è sbagliato se lo definisco un poliziesco? In fondo è un’indagine seguita in tutti i suoi dettagli.
«Quando mi viene chiesto, io lo definisco “giallo”, ma in effetti poliziesco credo sia più esatto: è raccontato in prima persona e c’è un’indagine a 360 gradi».
Come procedi quando scrivi un romanzo?
«Faccio una scaletta dettagliata, ne ho bisogno. Migliaia di pagine che però constantemente rifaccio quando, scrivendo il romanzo, mi accorgo di cosa funzioni e cosa no».
E succede spesso?
«Succede... Ti accorgi che servono cambi di ritmo, personaggi che diventano fondamentali. E poi la storia mentre la scrivi può avere dei buchi. Con “Il cinese” ero a tre quarti della stesura, quando mi sono accorto che mancava un passaggio fondamentale per un’inchiesta poliziesca: l’indagine bancaria. Ho pianto e tirato parolacce per un giorno, dopodiché mi sono rimesso sulla tastiera e ho inserito la questione delle banche clandestine gestite da cinesi».
Prima di leggere il libro ti chiesi se avrei trovato nelle pagine l’ironia tipica di Coliandro e mi avevi risposto di sì. Dopo averlo letto posso dirti che avevi ragione, ma che ho trovato anche tanta malinconia?
«Vero, e mi fa piacere tu me lo faccia notare. Volevo che emergesse nei dialoghi, ma senza nessuna forzatura. Nel romanzo troviamo l’ispettore Luca Wu che ha una patina di malinconia, eppure è circondato dalla tipica ironia dei romani (è ambientato nel multiculturale quartiere di Tor Pignattara, ndr). Questi due sentimenti servivano entrambi. Luca Wu, di origine cinese ma nato in Italia, ha profonde ferite personali. E  poi fin dall’inizio c’è una bambina assassinata. Sono situazioni che cambiano davvero gli sguardi dei poliziotti. Lo so, perché ho vissuto parecchio tempo a contatto con la questura di Livorno e certi omicidi non lasciano mai indifferenti. L’ironia a volte è necessaria, se si vuole uscirne il meno devastati possibile».
Con quale schema, invece, fai  muovere i tuoi personaggi?
«Non lo so. A volte mi chiedono: “Perché Luca Wu non ha fatto questa cosa?” Rispondo: “Non ne ho idea, dovreste chiederlo a lui”. Ed è vero, credimi».
“Il cinese” ha avuto un tale successo che... Lo diciamo?
«Che diventerà una serie tv. È una grande soddisfazione, perché sono davvero pochi gli scrittori italiani che fanno parte di questo club: penso a Manzini, Saviano, De Cataldo, Camilleri e qualche altro».  
Ci sarà anche un seguito cartaceo, vero?
«Sì».
Troppa curiosità: ci dai qualche anticipazione?
«La prima parte del romanzo sarà ambientata in Cina, poi si torna in Italia. E troverete un Luca Wu un po’ diverso...».
Ci sono scrittori di genere che consideri punti di riferimento?
«Amo tantissimo Jo Nesbo con il suo ispettore Harry Hole, poi ti dico John Connelly e il suo detective Charlie “Bird” Parker e, infine, Don Winslow con il suo “Il potere del cane”. Tre giganti che adoro. E ti aggiungo anche Lee Child».
C’è un romanzo che quando l’hai letto hai pensato: “Avrei voluto scriverlo io”?
«“El Cartel” di Don Winslow. E “Romanzo criminale” di De Cataldo. Il romanzo di Giancarlo, insieme ad “Almost Blue” di Carlo Lucarelli e  a quelli di Massimo Carlotto che hanno come protagonista l’Alligatore, hanno cambiato la narrativa di genere».
Roberto Pegorini