«Nasco come umorista, ma il mercato era saturo e ho cambiato». «Per Cazzullo sono il miglior giallista italiano? Le classifiche dicono altro, ma mi tengo stretto il complimento». «I miei personaggi sorprendono anche me»

2017-02-17

Chi ama leggere e predilige i gialli lo conosce sicuramente. Lui è Claudio Paglieri, giornalista del Secolo XIX e soprattutto uno degli scrittori italiani emergenti, anche se sono anni che porta in libreria capolavori. E finalmente pare aver raggiunto la meritata notorietà. Ha accettato di fare quattro chiacchiere con inFolio, lo ringraziamo e partiamo.
Come nasce il passaggio da giornalista a scrittore?
«Nei miei primi anni da giornalista facevo soprattutto lavoro di redazione: disegnare le pagine, scegliere le foto, passare e titolare gli articoli degli altri. La scrittura, per la quale mi sentivo portato e che era la motivazione che mi aveva fatto scegliere il giornalismo, mi mancava molto. Perciò decisi di praticarla al di fuori del giornale, dedicandomi ai libri. Ora scrivo molto più spesso anche sul giornale e cerco di tenere distinte le due cose: la mattina scrittore, pomeriggio e sera giornalista. Per fortuna sono due stili e due ritmi molto diversi, ma in qualche modo si nutrono l’uno dell’altro».
I tuoi primi libri erano umoristici, poi la svolta verso il giallo, come mai?
«Mi piace cambiare, provare strade nuove. All’epoca l’umorismo mi piaceva molto, avevo cominciato con “Liguri, quelli che mugugnano”, un libro sui difetti dei miei concittadini. Ma in libreria l’umorismo trovava poco spazio, e quel poco venne poi occupato da comici tipo Zelig riciclati scrittori. Difficile fare emergere la qualità. Sono passato al giallo perché, da appassionato lettore di Conan Doyle, Simenon, Chandler e compagnia mi aveva sempre attirato l’idea di provare a scriverne uno io. E poi perché il giallo era perfetto per la prima storia che avevo in mente, quella ambientata nel mondo del calcio corrotto e diventata poi “Domenica nera”, che anticipò lo scandalo di Calciopoli. Non credevo ne avrei fatti altri, invece sono arrivato a sei. Incredibile».
E così hai creato una serie di libri che hanno come personaggio l’ispettore Luciani da cui, ammetto, sono rimasto folgorato. Quanto c’è di te in lui e quanto lo senti addosso nella vita di tutti i giorni?
«Il commissario Luciani per certi versi è me stesso al cubo, o meglio ha alcuni aspetti del mio carattere portati all’eccesso. È un solitario, parla poco, non è simpatico, specialmente di primo acchito. Abbiamo in comune la passione per il tennis e per la corsa, mentre gli invidio un po’ il successo con le donne. È incorruttibile, con un grande senso di giustizia che a volte va anche oltre la legge e in questo assomiglia un po’ a uno dei miei personaggi preferiti, Tex Willer. Siamo diversi sul cibo: lui è anoressico, io mangio sano ma mangio con piacere».
Che effetto ti fa leggere che Aldo Cazzullo sulle pagine de “Il Corriere della Sera” ti ha definito il miglior giallista italiano?
«Beh, una bella sorpresa. Non so se sono davvero il migliore, le classifiche di vendita dicono altro, anche se non sempre quantità e qualità vanno d’accordo. Come diceva Andreotti, “sono di statura normale ma non vedo giganti intorno a me”. Mi prendo il complimento di Aldo Cazzullo e me lo tengo stretto, in attesa che il grande pubblico confermi il giudizio».
La tua passione per il tennis è risaputa, nei hai scritto spesso nei tuoi romanzi. Nel tuo ultimo lavoro “Delitto e rovescio” è addirittura protagonista.Un omaggio a questo sport o cos’altro?

«Ci sono pochi libri sul tennis e anche solo per questo mi piaceva l’idea di un’ambientazione originale. Amo questo sport ma ne vedo anche alcuni difetti che potevano essere una buona base di partenza per un giallo. Il libro è stato anche l’occasione di divertirmi e di esporre alcune mie teorie sul gioco e sui giocatori, di dichiarare il mio amore per Wawrinka e la noia che mi attanaglia di fronte a un Djokovic-Nadal».

A proposito di tennis, che mi dici di Federer?

«Un fuoriclasse, dallo stile impeccabile, capace di migliorarsi mentalmente e tecnicamente anche a 35 anni. Ma io sono tra i pochi ai quali gli Australian Open hanno lasciato un po’ di amarezza: il mio idolo in effetti è Wawrinka che reputo il miglior giocatore del mondo. Per essere il numero uno gli manca solo continuità, ma i suoi picchi sono il massimo e il suo rovescio è inarrivabile».
Il tennista di cui ti sei innamorato invece da giovane?
«Mi piacevano tanti giocatori, anche con stili diversi. Connors è stato il primo, poi Wilander, il più intelligente in campo, quindi sia Agassi che Sampras ma soprattutto, all’epoca, Alex Corretja col suo rovescio perfetto. Dovessi sceglierne uno solo direi però Stefan Edberg, l’eleganza fatta persona».
Quando scrivi un romanzo, hai esattamente tutta la trama in mente o mentre batti sui tasti a volte i personaggi ti sorprendono?
«Non preparo mai niente in anticipo, non faccio tabelle né scalette. Perciò i personaggi mi sorprendono eccome, perché crescono nel corso della storia e spesso fanno quello che vogliono loro e non quello che pensavo io. È un modo di lavorare faticoso, con molti ripensamenti e aggiustamenti, e tanti tagli. Ma mi aiuta a non dare niente per scontato e a trovare tante sfaccettature nelle loro personalità».
Nei tuoi libri anche la musica ha la sua importanza, o sbaglio?
«A volte sì, mi piace infilare riferimenti a qualche canzone che amo, ma solo se ha senso nella trama, altrimenti diventa un vezzo e suona fasullo. Non sono un esperto di musica, la ascolto solo durante i viaggi in auto e non ne faccio spesso».
Chi sono i tuoi scrittori di riferimento, quelli che ringrazi il cielo di avere incontrato sulla tua strada?
«Mamma mia, tantissimi. E continuo a incontrarne, per fortuna. Direi sopra tutti Kurt Vonnegut per il pensiero laterale e l’ironia, John Fante per la passione, poi la profondità di Saramago, l’umanesimo di Amin Maalouf, Stefano Benni per l’umorismo ma non solo. Il giallista che ammiro di più è Dennis Lehane, quello di Mystic River e L’Isola della Paura. Negli ultimi anni ho scoperto i romanzi di Romain Gary».
Il libro che invece avresti voluto scrivere tu?
«Madre notte di Kurt Vonnegut».
Hai già in mente un nuovo progetto?
«Un libro sulla corsa e la scrittura, e una trilogia di science fiction».
Roberto Pegorini