«Il personaggio, seppure romanzato, è vero: Renzo Colombo, artefice dell’industria tessile». «Questo lavoro ha richiesto una grande apertura mentale». «Mentre scrivo riesco a emozionarmi al punto anche di piangere»

2017-07-14

Attualmente vive a Rovato, in provincia di Brescia, ma è bergamasca doc e ci tiene che venga evidenziato. Un orgoglio comprensibile. Giornalista per il mensile “Bre”, dove si occupa di arte, cultura e spettacoli e dove ha avuto la fortuna di intervistare personaggi di livello internazionale, assicura che da sempre ha una penna e un foglio in mano. Ha vissuto per un periodo negli Stati Uniti e grazie a questa esperienza oggi insegna inglese privatamente. Da dodici anni è anche scrittrice e da circa un mese è uscito “La fibra umana”, il suo terzo romanzo. Insomma, un personaggio a tutto tondo, che merita davvero. Lei è Emanuela Serughetti, proviamo a conoscerla meglio.
Partiamo: ci racconti brevemente la trama de “La fibra umana”?
«Si tratta di un romanzo con personaggi reali ancora viventi. Si parte dalla storia di Renzo Colombo, imprenditore bergamasco, artefice dell’industria tessile e inventore della macchina per tingere la fibra poliestere. Intorno a lui si snoda la situazione storico sociale dell’Italia da dopo la Seconda Guerra Mondiale fino al Duemila. E ne nasce un ritratto anche psicologico di un personaggio incredibile. Mi interessava molto porre l’accento sugli intrecci relazionali e sulla sua figura di uomo, imprenditore, padre, amante e amico. E poi si incrociano numerosi personaggi noti del nostro Paese e tanti passaggi storici importanti e interessanti».
Questo è il tuo terzo romanzo: che differenze troviamo rispetto agli altri?
«Direi che questo lo reputo il più maturo ed è anche molto diverso. Il primo, intitolato “Un abito per mia madre” è biografico, basato su storie personali, vita vissuta e risente del mio periodo statunitense. Sotto la lente finisce, appunto, l’abito che è simbolico di ogni persona. È molto psicologico. Il secondo, invece, intitolato “Sale”, va indietro negli anni e parte addirittura dal 418 a.c., approfondisce anche la storia celtica, ma arriva fino ai giorni nostri e ha come elemento importante il lago di Iseo. La territorialità è importante. Prima di scriverlo avevo fatto un grande lavoro di ricerca sulla storia, sui costumi e sulle popolazioni».
Che difficoltà si incontrano nel dover scrivere una biografia romanzata come quella de “La fibra umana”?
«Davvero tante. Devi calarti in tutto e per tutto nei panni dei personaggi. Durante le lunghe chiacchierate-interviste con Renzo Colombo si è consolidato un rapporto intimo e confidenziale, fondamentale per potere raccontare questa storia. È stata necessaria una grande apertura mentale e una totale fiducia. Poi, come scrittrice, ho dovuto elaborare il tutto creando un mix tra parte romanzata e fantasia, frutto di un occhio curioso su quello che ruotava intorno al personaggio. Già, perché non va dimenticato che, oltre a Renz, ho parlato con altre persone per riuscire a entrare completamente nella storia. E ne è venuta fuori una prosa intensa e dinamica».
Già perché hai dovuto raccontare anche persone che gravitano intorno a Renzo Colombo...
«E pensa che uno dei tre personaggi protagonisti è morto, quindi ho dovuto incrociare le varie interviste fatte per ricostruire le sue vicende, e non solo. Inoltre non va scordato che ogni personaggio ha una sua verità e una sua storia che vivono in simbiosi con quelle del protagonista principale. Devo però dire che parlare con Renzo è stato meraviglioso e coinvolgente fin dal primo momento. È una persona di 84 anni affabile che dà fiducia. Ho individuato fin da subito la materia prima, cioè il tessuto, che si prestava perfettamente per la metafora che avevo in mente: la trasformazione della fibra sia tessile che umana».
L’incontro con Colombo come è avvenuto? È stato casuale o cosa?
«Non è stato casuale, mi ha contattato lui. Cercava una persona che potesse raccontare la sua storia e un’amica comune le ha indicato il mio nome. Si è presentato con i suoi quaderni fitti di appunti. Ha iniziato a parlarmi di due o tre cose ed è stato subito feeling. Adoro lavorare sui dettagli e Renzo è un vulcano in questo senso. Pensa che a stesura completata è capitato che mi raccontasse aneddoti e stupita gli ho detto: “Ma non potevi dirmeli prima?”».
Visto che ti ha contattato lui ti ha dato anche indicazioni su cosa scrivere, o meno?  
«No, no... Lui ha solo raccontato, poi sono stata io a decidere cosa riportare e come. Il suo vissuto è incredibile. E nel romanzo ho cercato di farlo emergere tutto. Dagli anni del miracolo economico italiano, alla società che cambiava e perfino con accenni al mondo dello sport e alla sua amicizia con il ciclista Felice Gimondi».
Ho notato nel tuo romanzo una ricerca quasi maniacale delle parole e dei termini usati. Ti viene naturale o ci vuole molta autodisciplina?
«Quando decido di fare le cose mi piace farle bene e mi immergo completamente. Se inizio un progetto lo porto fino in fondo e mi impongo di tenere la barra del timone sempre dritta. Se cambio qualcosa in corsa non sarebbe serio. Certo, ci vuole impegno e tanto. Ma sono fatta così. Quando scrivo ho una cura massima dei dettagli. E mentre scrivo mi emoziono anche. Ho dovuto raccontare della morte di una persona e mentre lo facevo mi sono messa a piangere. Credimi, ero commossa veramente».
Quando scrivi? C’è la leggenda che gli scrittori lo fanno solo di notte...
«Io non incentivo la leggenda. Di notte devo dormire. Scrivo sempre di giorno. Fortunatamente il mio lavoro mi permette da sempre di avere tempo per fare anche la scrittrice».
Fatti un po’ di pubblicità: secondo te chi dovrebbe leggere “La fibra umana”? A chi lo consigliamo?
(Sorride) «Dai 16 anni fino ai 100 tranquillamente. Di certo chi ha una certa età potrebbe commuoversi perché sarà un viaggio anche nelle sfumature del suo passato, ma anche i giovani potranno trovare spunti interessanti. La lettura è impegnativa, ma può anche insegnare qualcosa».  
E poi un libro scritto bene, non fa male, lo vogliamo aggiungere?
«Grazie, mi fa piacere se chi si avvicina a “La fibra umana” percepisca anche che è scritto bene».
Scrivere per te cosa significa?
«Vuole dire sanguinare e sarà sempre così. C’è sempre qualcosa da tirare fuori quando mi metto davanti a una tastiera. È un lavorare su me stessa. E poi c’è la ricerca delle parole, costruzione di un’emozione, la volontà di volere lasciare qualcosa di utile al lettore... La mia non è una scrittura leggera, ne sono consapevole. È impegnativa. È la costante volontà di incastrare una parola dietro l’altra fino a quando, tutte insieme possano finalmente formare una melodia di pensieri».
So che sei concentrata sulla promozione de “La fibra umana”, ma posso chiederti se stai già lavorando ad altro?
«A livello di pensieri, sì. Sento che i tempi sono maturi per rimettermi davanti al computer. Questa volta però sarà un lavoro più mio, non sarà commissionato da nessuno e non sarà neppure legato alla territorialità come nei precedenti lavori».
Hai mai pensato, in un futuro, di provare a cimentarti in un altro genere o pensi di restare fedele alla narrativa?
«Sinceramente vedo difficile l’ipotesi di provare a cambiare genere. Sono legata alla narrativa e alla scrittura contemporanea. È anche il genere che in prevalenza leggo e, di conseguenza, assorbo. Non è che ci si può improvvisare da un giorno all’altro in scrittore di thriller, fantasy o quant’altro. Al massimo si può giocare con qualche sfumatura all’interno dell’impianto letterario che hai creato, ma non di più».