15 Maggio 2020

Lei è Erica Boccalon, ha 21 anni, è una studentessa universitaria di Biologia e ha frequentato il liceo classico Itsos di Marie Curie. Il suo sogno è specializzarsi e dedicarsi a gestione, conservazione e progetti di ripopolamento di aree protette ed ecosistemi, soprattutto attraverso la protezione e la reintroduzione di specie chiave. Nel frattempo è entrata a fare parte dei volontari Wwf, non per questo però ha rinunciato al suo libero pensiero. Ha scritto così queste riflessioni che riportiamo di seguito.

“Sono una volontaria in erba del Wwf. Mi sono iscritta poco prima della pandemia, per cui non ho ancora potuto prendere parte ad alcuna iniziativa ambientalista o animalista in concreto. Tempo fa, però, mi è stato proposto di partecipare ad un piccolo ed embrionale progetto di sensibilizzazione di giovani studenti di scuola secondaria: sostanzialmente, prevedeva di “formare nuovi giovani attivisti” convincendoli tramite social a entrare nella ciurma. Ho rifiutato.  Durante un incontro in videochat, mi è stata detta una cosa giusta: un volontario dovrebbe credere negli ideali e negli obiettivi dell’associazione cui appartiene, proprio per rappresentarla con altrettanto entusiasmo e convinzione; uno degli obiettivi del Wwf è soprattutto la sensibilizzazione del singolo cittadino, più che il movimento attivo a favore del cambiamento su grossa scala come quello industriale, ad esempio.  Io, in questo caso, mi sono sentita e mi sento discordante. Credo sì che impegnarsi nel proprio piccolo sia importante (altrimenti io stessa non lo farei), ma credo anche che sia molto, molto difficile ottenere un miglioramento davvero rilevante facendo leva sulla sensibilizzazione su questo piano, soprattutto date le condizioni di urgenza in cui versiamo, che richiederebbero un cambiamento radicale e, per quanto possibile, veloce. Questo lo dico con assoluta umiltà: non ho in mano dati statistici che possano giustificare questa mia opinione, ma mi basta guardarmi intorno per consolidarla. Ci sono persone aperte, coscienti e sensibili, sensibilizzabili al problema, ma tra queste (che già non sono la maggioranza: altrimenti non ci troveremmo ancora in questa situazione) penso che solo una minoranza sia rappresentata da persone che prendono una posizione e si applicano, invece di limitarsi ad un’opinione meramente astratta e poco tangibile: oltretutto, spesso sono persone che si “auto-sensibilizzano”, che cercano informazioni e opportunità di agire, invece che aspettare di riceverne. Una grande fetta, invece, penso sia costituita dalle persone che si esimono dal fare davvero qualcosa di concreto, in modo più o meno comprensibile. Prendendo come esempio l’attenzione al supermercato, penso alle persone che a malapena arrivano a fine mese, la cui preoccupazione, prima di comprare cibo sostenibile e biologico, è di riuscire a comprarlo, il cibo (e spesso i marchi più economici sono anche i meno sostenibili); ma penso anche più semplicemente al cittadino medio che, appena uscito dal lavoro, passa a fare la spesa in fretta e furia prima di tornare stanco a casa – figuriamoci se ha voglia di fermarsi a leggere etichette e cercare la confezione di un materiale piuttosto che di un altro.  Certo, c’è chi comunque, per quanto stanco e di fretta, fa il “sacrificio” di impegnarsi ma, come per tutte le cose, bisogna essere davvero motivati e interessati per essere disposti a fare anche piccoli sacrifici e impegnarsi per un buon fine. E ahimè, come a me non interesseranno mai i motori o il calcio, a molte persone non interesseranno mai l’ambiente o gli animali che lo abitano, e non saranno mai così motivate da impegnarsi anche solo a capire che siamo parte integrante della natura, che allo stesso tempo la natura è casa nostra, e che dovremmo proteggerla e preservarla. “Mai” è forse una parola grossa, ma è per lo meno quella che si avvicina di più ad esprimere un tempo davvero molto lungo prima che la cultura e la mentalità delle masse mutino in meglio, e che assurde tradizioni e credenze scompaiano. Certamente riconosco che fare sensibilizzazione e divulgazione è proprio il primo passo verso un simile cambiamento, ed è necessario e utilissimo farlo, ma anche nella prospettiva migliore, che prescinde dal radicamento culturale di un popolo, penso ci sia un grande problema di fondo. La divulgazione può ambire a influenzare davvero più strati sociali (siano essi basati su reddito, istruzione, stile di vita, posizione sociale) solo adeguandosi ad altrettanti livelli – ad esempio, considerando i media televisivi: quante persone la sera guardano reportage o documentari, e quante guardano instancabilmente programmi di gossip o film commerciali? La divulgazione dovrebbe adattarsi a più nicchie mediatiche, e non solo a quelle che possono interessare a chi è già sensibilizzato, magari anche per predisposizione. Sarebbe d’aiuto anche un approccio diversificato, rispetto a quello attualmente più diffuso, che è troppo spesso lacrimevole e accusatorio – nessun essere umano (o almeno la maggioranza, mi auguro) prova piacere a sentirsi triste e in colpa, sentimenti che istintivamente tende ad evitare, da qualsiasi fonte gli vengano propinati, e che non sempre suscitano un desiderio di redenzione e cambiamento altrettanto forte (anzi, possono risultare anche controproducenti).

Perciò, anche e soprattutto tenendo conto di quanto profondamente una mentalità può affondare le sue radici in un popolo, almeno per com’è adesso la divulgazione risulta fruttuosa solo in una prospettiva temporale troppo distante, una distanza che, ad oggi, non possiamo permetterci. Pensandola così, non riuscirei a dare il massimo in un progetto che mi richiederebbe proprio di impegnarmi in una cosa in cui credo poco: preferirei trovarmi a fare qualcos’altro in cui credo veramente, piuttosto che perdere tempo a fare una cosa in cui personalmente potrei risultare solo mediocre, senza beneficio né mio né soprattutto di chi mi sta intorno e dovrebbe trarne quantomeno spunto. Se penso invece ad un’azione su più ampia scala, come il movimento a favore di produzioni industriali sempre più sostenibili diffuse, allora potrei dare molto di più, perché ci crederei fermamente: facendo sempre riferimento all’esempio di prima, se l’industria alimentare subisse una conversione dettata dall’alto, dalla legge, sarebbe tale da investire tutte le aziende, e non solo quelle poche che fino ad ora hanno intrapreso vie alternative di propria sponte, magari anche con notevole sforzo e sacrificio economico. È chiaro che è difficile ottenere cambiamenti in campo di legge, ma credo che, una volta ottenuti, questi abbiano un peso molto più significativo di quello del singolo cittadino, per quanto ben motivato. Basti pensare all’eliminazione dal mercato di cotton fioc e plastica monouso: a scorte terminate, il cittadino “frettoloso” o non sensibilizzabile non avrà più la possibilità di scegliere un prodotto non sostenibile: non lo troverà e basta – o, nella peggiore delle ipotesi, sarà più difficile e dispendioso trovarlo, il che abbatterebbe comunque di molto l’impatto ecologico negativo. Poi, ancora meglio sarebbe che ne trovasse un’alternativa nuova e studiata per essere sostenibile.  Anche in un’ottica meno lungimirante e ottimistica, e magari più realistica, un miglioramento dal punto di vista industriale – miglioramento minimo, ma comunque più impattante del singolo – potrebbe arrivare anche dal movimento tenace contro un’unica azienda da parte di un’associazione da sola, grande o piccola che sia: sarei comunque più motivata in una direzione del genere. In parole povere, credo più in un’azione ad ampio raggio, che punti ad un cambiamento diffusivo a livello di industria, più che puntuale a livello del singolo.  L’azione è necessaria, e deve partire dall’alto. Questo non significa che i singoli individui non abbiano peso: sono comunque sicura che ognuno possa dare un impatto sempre più grande, al proprio piccolo. Ma il cambiamento, in quest’ottica, si otterrà efficacemente ad una condizione: la differenza nel proprio piccolo dev’essere solo il punto di partenza di una prospettiva che guardi molto più lontano del limite del proprio orticello e dintorni, una prospettiva che punti costantemente e direttamente al cuore del cambiamento, più che alle altre singole cellule. È con questo significato che il piccolo di pochi deve (perché può) diventare il grande di tutti”.
Erica Boccalon