15 Novembre 2019

E siamo a tre. Con ”Il morso del basilisco” (Meravigli Edizioni)  Luigi Frigoli, giornalista dell’Unione Sarda, ma per anni collaboratore di inFolio, ha pubblicato il suo ultimo romanzo, che va a formare un’avvincente trilogia storica. Si tratta di un libro che comunque si può leggere anche senza aver avuto il piacere di appassionarsi ai primi due, anche se ne consiglio una lettura completa. Non ve ne pentirete, perché Luigi, oltre ad avere una narrativa davvero piacevole, racconta fatti realmente accaduti, ma con un stile romanzato. Insomma, conoscerete la storia di Milano e dei Visconti, senza quasi rendervene conto. E proprio con lo scrittore abbiamo affrontato una lunga chiacchierata. Visti gli anni che ci conosciamo, e l’amicizia che ci lega, diventa quasi difficile considerarla un’intervista.  
Dopo una vipera e una serpe ora arriva un basilisco. Ci spieghi qualcosa di questo tuo nuovo lavoro?
«Cronologicamente, “Il morso del basilisco” è il prosieguo dei miei due precedenti romanzi, “La Vipera e il Diavolo” e “Maledetta Serpe”. In realtà i tre libri, pur legati fra loro, hanno vita a sé e possono essere letti indipendentemente l’uno dall’altro. Al centro della trama c’è ancora la dinastia Visconti, a cavallo fra Trecento e Quattrocento. Il protagonista è Gian Galeazzo, primo duca di Milano, che dopo aver conquistato praticamente tutto il Centronord Italia, alla vigilia dell’attacco decisivo a Firenze, che poteva garantirgli la corona d’Italia, si ammala improvvisamente e muore. In pratica, il protagonista tira le cuoia nelle prime due pagine, ma, essendo un gigante, sia dal punto di vista storico che letterario, la sua figura aleggia fino all’ultima riga».
E la trama? Come si snoda?
«Ovviamente la morte di un sovrano tanto potente innesca una serie di conseguenze, sia a livello italiano che europeo. Gian Galeazzo aveva creato un dominio vastissimo e, scomparso lui, tutto inizia a sgretolarsi, tra lotte di potere, tradimenti e ambizioni personali. Il libro prova innanzitutto a raccontare questo crollo e i tentativi della dinastia di tenere insieme i pezzi. E poi c’è da fare luce su un mistero…».
Ovvero?
«Gian Galeazzo si ammala e muore proprio quando stava per coronare i suoi sogni di gloria. Un caso? La sorte? O qualcuno l’ha tolto di mezzo per evitare che l’Italia cadesse nelle mani dei Visconti? Per questo nel libro la vedova del duca, Caterina, incarica un cavaliere in disgrazia, Ottone da Mandello, di investigare. E si scopre che la lista di chi voleva morto il futuro re è davvero lunga. Insomma, c’è anche un giallo da risolvere».
Ci troviamo davanti a una trilogia che potrebbe avere anche un quarto, quinto o sesto episodio?
«Il progetto originale di quella che è stata ribattezzata la Saga dei Visconti prevedeva una trilogia. Ma la storia viscontea è lunga e gli spunti sono tantissimi. Quindi, non so se vale la pena fermarsi. Vedremo».
A chi si rivolgono i tuoi romanzi?
«Esiste un pregiudizio sui romanzi storici. Si dice che siano troppo cervellotici, noiosi, ridondanti, fuori dalla realtà, pieni di nomi e di date. Come se fossero dei manuali o dei saggi. In realtà hanno tutti gli ingredienti che possono fare un brodo letterario saporito: amore, odio, tradimenti, ambizione, dolore e felicità, intrighi, crudeltà, persino magia e supestizione. Nei miei romanzi cerco di mixare tutto questo, per offrire una storia che possa intrigare e, al contempo, raccontare aspetti sconosciuti del nostro passato. E, perché no?, magari insegnare qualcosa. Per questo credo possano piacere all’appassionato di romanzi classici così come agli amanti del fantasy, a chi cerca spunti per conoscere la storia e l’origine dei luoghi della propria città e della propria regione, anche se, come detto, i libri spaziano in tutta Italia e in Europa. E, devo dire, anche agli studenti che alle superiori stanno affrontando l’epoca medievale. Non per niente organizziamo presentazioni nelle scuole e nei licei, sempre molto partecipate».
Fare lo scrittore e fare il giornalista comporta due stili diversi. Ti è mai capitato di fare confusione quando ti accingi a scrivere un capitolo o un articolo?
«Sinceramente no. O, se succede, non me accorgo. Certo, è probabile una qualche deformazione professionale per chi scrive per lavoro. Più che nello stile, vedo più similitudini tra il lavoro di ricerca sulle fonti storiche e quello alla base del giornalismo d’inchiesta».
Lo dico io, cosi ti tolgo da ogni imbarazzo: dal primo al terzo romanzo c’è una maturità nella scrittura che si nota eccome. Tu te ne rendi conto di questa crescita?
«Come disse Truman Capote, uno scrittore, quando si rilegge, considera il suo lavoro sempre inadeguato. Dunque, mi fido di ciò che dicono i lettori. Qualcuno, però, preferisce il primo romanzo, qualcun altro il secondo, chi ha letto l’ultimo dice che è il migliore dei tre. Insomma, de gustibus… Di sicuro, ora, quando scrivo un capitolo, mi sento più sicuro, mentre all’inizio mi capitava di rileggere una frase anche decine di volte prima di convincermi che fosse buona. La maturità di cui parli, forse sta in questo».
I tuoi progetti futuri? Mai pensato di scrivere un romanzo non storico o preferisci ancora “giocare in casa”?
«Sì, ci penso spesso. E ho anche tantissime idee. Mi piacerebbe, ad esempio, cimentarmi in un techno thriller oppure in un romanzo a sfondo sportivo. E poi, documentandomi per la trilogia, ho raccolto tanto di quel materiale da scriverci almeno dieci saggi».
Scrivere spesso vuol dire giocare con la fantasia. Un romanzo storico in questo senso ti limita oppure trovi ugualmente spazio?
«Nei miei romanzi cerco sempre di mantenere il giusto equilibrio tra fatti storici e fatti inventati. La storia, poi, a volte sa essere rocambolesca, imprevedibile, incredibile. Roba che nemmeno un team di creativi strapagati potrebbe sognarsi. Dunque, basta attingervi. Sempre cercando di non esagerare, ovviamente, per non snaturare un genere narrativo che ha delle regole precise, anche se qualcuno spesso se lo dimentica».  
Mi dici quali sono i tuoi scrittori di riferimento?
«Per quanto riguarda il romanzo storico i mostri sacri sono Alessandro Manzoni, Alexandre Dumas e Umberto Eco. Tre maestri irraggiungibili. E poi Ken Follett. Ma anche Michael Crichton e James Clavell, che secondo me hanno avuto il merito di essere riusciti a modernizzare il genere, facendolo uscire dai canoni consueti».
Se dovessi consigliare tre romanzi, che titoli mi proponi?
«Sembra una domanda semplice, invece mi metti davvero in crisi».
Lo sapevo, fai divertire un po’ anche a me...
«Eliminando i grandi classici, che diamo per scontati direi: “Shogun” di James Clavell, visto che l’ho citato sopra e che l’ho finito da poco. Poi “Tolstoj è morto” di Vladimir Pozner, che unisce ricerca storica, metodo giornalistico e tanta ironia. Infine, “Le montagne ghiacciate di Kolyma” di Lionel Davidson».
In Italia si legge davvero poco. Una tua riflessione su questa realtà? Hai una tua “ricetta” per invertire questo triste dato di fatto?  
«È una situazione talmente sconsolante che conosco i dati a memoria: in Italia solo 4 persone su 10 leggono almeno un libro all’anno. E stiamo larghi, perché se non erro in quel 4 su 10 finiscono anche bambini e studenti che devono leggere perché vanno a scuola. Io sinceramente non ho una ricetta per invertire la rotta. Tranne una, che però può sembrare scontata: ripartire dai bimbi e dare loro in mano, oltre all’iPad, oltre al telecomando, un libro. E ricordare ogni volta che se ne ha l’occasione le parole di Umberto Eco, che ci ha insegnato che “chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge, invece, avrà vissuto 5.000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia e quando Leopardi ammirava l’infinito. Perché la lettura è proprio questo: una sorta di immortalità all’indietro».