15 Ottobre 2020

Quando ho fatto il test, sono risultato positivo alla presenza degli anticorpi specifici per il covid e in effetti, con il senno di poi, ricordo di essermi sentito poco bene per un giorno, ma nessuno della mia famiglia ha manifestato particolari sintomi quindi, tutto sommato, è andata molto bene». È il finale del toccante racconto di Massimo Zambon, medico in servizio all’ospedale Uboldo dal 2016 e responsabile del reparto di Rianimazione, oltre che di Anestesia e Pronto Soccorso. Una testimonianza diretta dell’atmosfera che ha avvolto le corsie dall’inizio di questa terribile pandemia e che lascia il segno, proprio come il virus lo ha lasciato nel suo corpo.

Tutto ha avuto inizio a marzo appena inoltrato. «Ricordiamo tutti perfettamente il primo caso di coronavirus registrato in Italia, era il 20 febbraio, e solo pochi giorni dopo hanno cominciato ad arrivare pazienti anche qui da noi» racconta il dottor Zambon, come fosse ieri. «Le prime indicazioni disponevano l’immediato trasferimento dei soggetti infettati, presso appositi centri di riferimento individuati, ovvero quelli già esperti nel trattamento delle malattie infettive, come ad esempio, sul nostro territorio, l’ospedale Sacco. Dopo poco tempo però, visto il rapido incremento del numero di casi, si è reso necessario ampliare la lista. In quella fase, per noi, il polo di riferimento è stato Melegnano. Quando poi ogni presidio è stato saturato, abbiamo iniziato ad accogliere noi stessi i pazienti che arrivavano: il primo ricovero qui all’Uboldo è stato il 7 marzo».

Professionisti ordinariamente abituati a fronteggiare svariate patologie, a prendersi cura di pazienti in condizioni anche molto gravi, pronti all’emergenza. Ma questa volta si trattava di un nuovo patogeno, nemico incognito nelle forme, nelle modalità di trasmissione e nel decorso della malattia provocata. «Non eravamo preparati, nessuno lo era. Dalla Cina arrivavano pochi dati, quindi in un primo momento la nostra gestione della patologia consisteva in terapie di supporto. Parallelamente si è reso necessario un totale rimodellamento logistico e organizzativo della struttura e del modo di lavorare. Abbiamo adibito i 5 posti letto operativi della nostra terapia intensiva di base, all’accoglienza dei malati covid. Poi questi posti sono diventati 7, ma non essendo ancora abbastanza, abbiamo dovuto riadattare anche quella cardiologica, per un totale di 12 posti. Senza contare tutti i pazienti accolti nei reparti di degenza, anche questi riconvertiti per il covid, in cui effettuavamo la ventilazione non invasiva».

Nei mesi maggiormente critici di quella che possiamo chiamare la prima ondata, i pazienti dei quali il personale dell’Uboldo si è preso cura, sono stati qualche centinaio. «In alcuni momenti abbiamo avuto fino a 100 positivi ricoverati contemporaneamente. È stato un lavoro di un’intensità senza precedenti. Con lo stesso organico, ci siamo trovati a dover gestire il doppio dei pazienti, molti dei quali intensivi con gravissime crisi per insufficienza respiratoria e decorsi imprevedibili. Una situazione talmente impattante dal punto di vista umano, che hanno messo a disposizione di noi medici, un team di psicologi».

Un risvolto di valorosa debolezza emotiva che forse non siamo abituati a concedere a chi, dietro a camice e mascherina, ha tutti i giorni a che fare con condizioni di sofferenza. Ma a certi stimoli, non ci si abitua mai. «Sono 42 i pazienti che abbiamo accolto in terapia intensiva, 18 di questi, non ce l’hanno fatta. Sono loro che più ricordiamo, perfettamente, potrei citarli tutti per nome. Soggetti relativamente giovani e sani, l’età media si aggirava sui 60 anni. Abbiamo vissuto esperienze tanto negative, come malati sui quali avevamo investito tanto, che sembravano avere buone speranze di guarigione, e che invece poi ci hanno lasciato, quanto positive come pazienti in condizioni critiche, più volte sul punto di non farcela, poi invece guariti e tornati a riabbracciare le proprie famiglie dopo mesi di terapia intensiva. L’aspetto più straziante è stato senza dubbio l’impossibilità di comunicazione. I parenti vedevano salire il proprio caro sull’ambulanza e in alcuni casi, letteralmente tornare dentro una bara. Per fortuna, grazie a una donazione da parte del Comune, sono arrivati dei tablet che hanno reso possibile la comunicazione tra familiari, pazienti e medici stessi. È stata una svolta e, sul lato umano, una piccola grande conquista». E adesso? «A metà aprile tutte le nostre terapie intensive si sono liberate e attualmente siamo ancora un ospedale covid free. Le disposizioni sono le stesse che avevamo all’inizio della prima ondata, quindi con centri di riferimento verso cui trasferire, ma ci stiamo preparando perché le previsioni non sono affatto rosee. Il numero di hub attivati sta aumentando e se fino a pochi giorni fa si presentava un paziente positivo ogni 3 o 4 giorni, nel weekend appena passato ne abbiamo ricevuto uno al giorno». 

Eleonora Pirovano