07 Giugno 2019

Ipiù lo conoscono come il Milanese Imbruttito, fenomeno social irriverente. Ma dietro la maschera si nasconde l’eredità del cabaret milanese, fatto di cinismo, autoironia e una prestanza attoriale da fare invidia. Abbiamo incontrato Germano Lanzoni a margine del suo spettacolo “Ci aggiorniamo” che lo scorso weekend è andato in scena al De Sica di Peschiera, riscuotendo un enorme successo.
Sul web sei lo stereotipo del capo ufficio milanese, sempre pronto a criticare i “giargiana” e perennemente concentrato a fare soldi, ma noi sappiamo che la tua carriera dice molto di più. Come nasci artisticamente?
«Lavoravo in un albergo a Riccione, nell’estate dell’87, e un mio amico mi ha consigliato di provare a fare l’animatore invece che l’apri-sdraio, così avrei potuto rimorchiare le ragazze, che era il vero motivo per cui ero lì. Così ho scoperto di avere un potere empatico che non conoscevo e di riuscire a creare un legame particolare con le persone. Nel giro di pochi anni sono diventato capo animatore e mi sono iscritto a una scuola di teatro per acquisire quella struttura recitativa che mi mancava. Poi è arrivato il cabaret nel quale ho sviluppato la mia personale linea drammaturgica».
Che anni erano?
«Intorno al 1994, anni d’oro per i comici a Milano. Si poteva sperimentare e dare sfogo al proprio talento. Io, in realtà, ho sempre cercato di diversificare, di essere animatore, teatrante e cabarettista insieme, in modo da ottimizzare il mio talento in diversi contesti, come quello della radio, per esempio».
Raccontaci di questa tua esperienza.
«Ho lavorato moltissimi anni a Radio DJ e a RDS. Il teatro è un luogo sacro che ti dà la possibilità di crescere e da cui non devi pretendere troppo, il cabaret invece è improvvisazione, monologo e musica, cosa che mi ha avvicinato ai Musicomedians dell’amico Flavio Oreglio, ma la radio mi riporta ai tempi dell’animazione. Tutta un’altra cosa».  
E, dopo tutte queste esperienze, immagino sia arrivata la svolta....
«Se parli dell’incontro con quei pazzi del Terzo Segreto di Satira, sì. Era il 2010, loro stavano facendo un lavoro per la scuola civica di cinema sul cabaret e, a quei tempi, il gruppo Democomica, che avevo fondato insieme a Rafael Didoni, era il più irriverente e forte della scena. Intanto era nata anche la pagina Facebook del Milanese Imbruttito e i due gruppi di ragazzi, davvero per caso, scoprirono di abitare a pochi numeri civici di distanza. Così si misero insieme, scrittori e videomaker, e a quel punto gli serviva solo un volto per il brand».
Ed è lì che arrivi tu?
«No, hanno chiamato un altro attore, uno molto bravo, aveva solo un difetto: era pugliese, un vero giargiana. Io sono stato la seconda scelta».
Dal palco alle pagine social, insomma. Ma il mondo del cabaret e quello del web possono convivere?
«Devono. Il cabaret è una piattaforma esattamente come Facebook o Instagram o Tinder! Beh, forse Tinder no... (ride, ndr) Comunque con il web ognuno può plasmarsi il suo mondo, crearsi il suo pubblico e riversare negli spettacoli la rete che si crea su internet. Dammi retta: l’artista che separa il live dai social, nel 2019, è solo pigro, perché se hai i contenuti giusti non puoi non approfittarne».   
E i maestri a cui ti ispiri credi che sarebbero d’accordo con te?
«Bisognerebbe chiederlo a loro, ma purtroppo al momento Giorgio Gaber, Enzo Jannacci e Dario Fo non sono interpellabili. Però è bellissimo ogni volta che si esce dalla stazione Centrale di Milano poterli ammirare raffigurati sulla parete della Feltrinelli. È come se ti dessero il benvenuto nella loro città. Loro rappresentano la milanesità, il disincanto autoironico con cui si mette l’uomo al centro. Quella comicità, così intelligente e sagace, abbassa le difese dello spettatore per sedimentarvi dentro la propria esperienza personale, qualcosa di un valore artistico immenso. Porto nel cuore le volte che ho avuto la fortuna di vederli esibirsi».
E cos’altro hai nel cuore?
«Le mie figlie prima di tutto, poi il Milan, che domande».
A proposito, raccontaci della tua storia con il Milan.
«Quando lavoravo a RDS l’emittente divenne partner del Milan e mi chiesero di diventare lo speaker ufficiale di San Siro, un vero sogno. Lo stadio è come un teatro con 70mila persone che ti ascoltano. Ancora oggi, dopo vent’anni, tremo ogni volta».
Hai letto formazioni in cui comparivano campioni come: Shevchenko, Rui Costa, Maldini… Non ti scoraggia leggere i nomi dei giocatori di oggi?
«Io non leggo il nome, leggo la maglia. E poi la carica che mi dà il pubblico è la stessa sempre. Comunque devo ringraziare il Milan perché mi ha permesso di calibrare il mio talento a misura di un brand di portata mondiale».
Non ci saranno stati i 70mila di San siro, ma anche al De Sica è stato un successo. Sensazioni?
«Bellissime. Quel teatro è un gioiello e poi il pienone fa sempre piacere. L’ascolto di persone che puoi sorprendere e arricchire con un tuo spettacolo è stupendo. Io cerco di dare al pubblico qualcosa che non si aspetta, e questo posso farlo grazie alla collaborazione di professionisti come Walter Leonardi, il regista, e Orazio Attanasio, il responsabile delle musiche».
Per finire: come sarà Germano Lanzoni tra qualche anno?
«Sicuramente invecchiato. A parte gli scherzi, voglio essere padre, innanzitutto. Ho due figlie che iniziano a essere grandi e a distruggere la mia autorità come io ho fatto per cinquant’anni sul palco. Sto poi lavorando molto a contatto con i giovani, nelle università, per diffondere le mie competenze nell’ambito della comunicazione. Il progetto che ho lanciato si chiama Hbe, Human business entertainment, che, all’occorrenza, diventa human business ellevatidalc… In realtà punto a una cattedra in Bicocca, ma non diciamolo troppo in giro… Taac».
Mattia Rigodanza