02 Febbraio 2018

La notizia del disastro ferroviario di Pioltello, stazione accanto a casa mia (risiede a San Bovio, ndr), e tratta che ho percorso spesso in treno, per recarmi al lavoro, mi è giunta verso le 8 del mattino, mentre uscivo di casa per raggiungere l’Università Cattolica dove, caso vuole, proprio quel mattino, avrei aperto la nuova edizione del corso di Safety & Security Management. Come tutti, di fronte alla cronaca di quel giorno, sono rimasta sgomenta. Come tutti, ma in modo diverso, perché come addetta ai lavori in materia di sicurezza, non posso fare a meno di pensare alle variabili insite in tali circostanze. La metodologia di approccio alla gestione delle emergenze, sembra recare in sé, a livello semantico, una sorta di fraintendimento, portando a credere che gestire un’emergenza significhi solo far fronte a fatti già accaduti al fine di arginare inevitabili danni. Questo errore interpretativo, scusabile ai più, diventa intollerabile se affiancato a chi di gestione di sicurezza si occupa per lavoro ogni giorno. La gestione dell’emergenza conta tre fasi precise, distinte e fondamentali: il “prima, il durante e il dopo”, due delle quali, purtroppo, rischiano di essere tralasciate, nell’idea, non veritiera, che le catastrofi siano eventi improbabili ed imprevedibili. Gli americani, pionieri nel teorizzare le modalità di gestione dell’emergenza, si riferiscono alla prima fase parlando di “early signals”, ossia di segnali deboli, cioè delle anomalie che devono essere rilevate preventivamente e comunicate secondo protocolli precisi che ogni azienda dovrebbe stilare. Un’eventuale falla in questa prima modalità d’azione, che può essere dovuta all’abitudine di tralasciare i segnali, alla negazione che scaturisce dalla paura a livello psicofisico, oppure alla struttura gestionale e comunicativa non performante, definita dal professor Maurizio Catino nel suo libro, “Miopia organizzativa”, può essere fatale. Per ovviare a questo tipo di percezione errata, le soluzioni efficaci da porre in essere sono sostanzialmente due: la sensibilizzazione personale e il miglioramento dei processi, il tutto tramite la formazione, le esercitazioni e le simulazioni volte a preparare individui e organizzazioni a gestire gli eventi prima che accadano, perché i disastri, terremoti, inondazioni, valanghe e incidenti sono cose che accadono e non devono trovarci impreparati. Molto importante, inoltre, anche la fase “post evento”, che spesso dopo i primi dieci giorni di inflazione dell’informazione, cade nell’oblio. Il “post” invece è il momento in cui fare, senza polemiche, tavoli di settore, per concentrarsi sull’analisi dei fatti e per imparare a modificare i propri comportamenti, magari imparando dalle azioni che siamo bravi a compiere come la fase del “durante”: in questo frangente le quasi 400 persone intervenute sul posto, la celerità degli allarmi, l’aiuto solidale di aziende vicine al luogo dell’accaduto, la prontezza, la preparazione e la serietà degli operatori del soccorso, hanno dato prova che è possibile essere all’altezza delle situazioni, perché non sia mai più “la prima volta”.
Dott.ssa Paola Guerra