02 Aprile 2020

I primi sintomi li ha avuti domenica 1 marzo, il ricovero è avvenuto venerdì 6 marzo e solamente lunedì 30 è stato dimesso, anche se con lo strascico di un’embolia polmonare che si porterà dietro per almeno sei mesi. A raccontare  la sua esperienza di contagiato da Covid-19 è Renato Facconi 69 anni, residente a Milano 2, medico di famiglia a Vimodrone da 41, mai avuto alcuna patologia pregressa. Un racconto che vuole essere la testimonianza di come il coronavirus sia una malattia, parole sue, “devastante” e di come sia importante seguire alla lettera le ordinanze ministeriali, regionali e comunali perché, come dice sempre Facconi: “Meglio stare in casa che in una corsia d’ospedale”.

A questo punto non ci resta che aprire le classiche virgolette e riportare fedelmente quanto ci ha detto. Non servono troppi commenti, al lettore la possibilità di leggere e riflettere: “Venerdì 28 febbraio ho lavorato tutta la giornata in ambulatorio, visitando alcuni pazienti con catarro e tosse. Io e altri cinque colleghi l’abbiamo fatto indossando mascherine semplici, l’Asl non ci aveva ancora fornito materiale sanitario. E lo dico senza alcuna polemica, vorrei essere subito chiaro, in questo. Domenica ho iniziato ad avere tosse e febbre, così lunedì, avendo ancora 38, ho mandato in ambulatorio un sostituto. Mercoledì ero sfebbrato, ma giovedì sera mi era tornata”.

E qui inizia il vero e proprio calvario. Siamo al 6 marzo. “Venerdì mattina mi sono alzato, mi sentivo fiacco e ho deciso di farmi un caffè che, però, non sono riuscito a bere. Decido di tornare a letto, ma in corridoio sono svenuto, cadendo di faccia e procurandomi anche un taglio. Mia moglie nel vedermi con il viso insanguinato è corsa subito da me, ma ha urtato contro un comodino ed è a sua volta svenuta. Quando ci siamo ripresi ci siamo sdraiati a letto e ho allertato il 112. Entrambi siamo stati portati al San Raffaele, ma mentre mia moglie è stata dimessa, a me hanno fatto il tampone ed è risultato positivo. Così mi hanno ricoverato, iniziando a curarmi con gli antivirali. E qui ho capito quanto sia devastante questa malattia. I primi giorni la febbre non saliva oltre i 38 gradi, ma non riuscivo neppure a tenere gli occhi aperti o ad alzare un braccio. In tutto questo avevo violenti attacchi di diarrea. Mi facevano tre flebo di tachipirina al giorno”.

Ma il peggio doveva ancora arrivare. “Dopo circa una settimana di traversie ho iniziato ad avere una forte tosse. Mi hanno subito fatto una lastra e si è così scoperta la complicanza che speravo di evitare: polmonite interstiziale. Sono subito stato messo sotto antibiotico a cui è stato abbinato un farmaco biologico antinfiammatorio che mi ha permesso di abbassare la febbre e recuperare un pochino”. Si entra così nella seconda settimana di degenza, sempre sotto ossigeno. “Quando si incominciava a parlare della possibilità di dimettermi, una mattina ho iniziato a sputare sangue, a causa di un’embolia polmonare. E via con una nuova terapia. Domenica sera, visto che le mie condizioni erano meno gravi di tanti altri, mi viene detto che dovrò essere trasferito a Villa-Turro perché al San Raffaele c’era necessità di letti. E così alle 21 vengo trasportato in ambulanza. Mi sono trovato in un reparto con altri 15 pazienti spostati in pochi attimi. Per prendersi cura di noi hanno chiamato d’urgenza medici e infermieri che da un minuto all’altro sono dovuti entrare in servizio, capire le nostre condizioni leggendo cartelle mediche per cui ci vuole un’ora e iniziare le nostre terapie. Personale medico, lo voglio ribadire, davvero lodabile che lavora in condizioni estreme senza mai tirare il fiato”.

E per non farsi mancare proprio nulla, lunedì sera è arrivata anche una colica renale. “Sono state due ore e mezza terribile, ma per fortuna è stato l’ultimo vero momento critico. Da martedì mattina, infatti, le cose sono andate decisamente meglio fino ad arrivare a lunedì 30 marzo, quando hanno deciso di mandarmi a casa. Ora devo gestire un’embolia polmonare per almeno sei mesi. Ho la mia bombola d’ossigeno che uso a discrezione, ma il peggio è stato messo alle spalle”. Ed è il momento di alcune considerazioni: “Posso davvero ringraziare il cielo di essere sopravvissuto. In quegli attimi, che non riuscivo neppure ad aprire gli occhi, continuavo a pensare che non avevo ancora fatto testamento. Con la religione ho un rapporto particolare, ma mi sono ritrovato a pregare molto spesso, unico modo per riuscire a rilassarmi un pochino. E’ stato un mese davvero devastante. E pensare che il 30 aprile dovrei andare in pensione. Ora voglio solo riposarmi e mettermi questa storia alle spalle il prima possibile. Ho accettato di raccontare la mia storia, sperando che possa essere di monito a chi ancora sottovaluta questa situazione e si lamenta perché costretto a rimanere in casa”.

Facconi, infine, chiede ancora un piccolo spazio perché vorrebbe fare dei ringraziamenti speciali: “Tutti parlano dei medici in prima linea ed è verissimo, ma io vorrei spezzare una lancia per le infermiere e gli infermieri. Lavorano sotto costante pericolo per la loro salute, hanno turno lunghissimi senza un attimo di pausa, sono sempre impegnate per qualcosa. Ma hanno un’umanità con i pazienti che è davvero encomiabile. Vorrei citarle per dire loro grazie. Al San Raffaele mi hanno sostenuto Agnese, Paola, Elena, Martina, Maria, Andrea, Stefano e Dario. Di Villa-Turro ricordo solo il nome di Lucia, ma anche tutte le altre meritano il nostro applauso. Sono persone meravigliose”.