24 Gennaio 2020

Splendida iniziativa quella organizzata mercoledì al centro civico Verdi. Il tema della serata è qualcosa che ci riguarda tutti: la ‘ndrangheta e in particolar modo la sua diffusione capillare in tutto il nord Italia. A organizzare l’evento è stato Luigi Piccirillo, consigliere regionale in forza al Movimento 5 Stelle e membro della commissione antimafia della Lombardia. «Sono contento di vedere una nutrita presenza di molti giovani», ha dichiarato il politico. «Il bullismo è all’origine della mafia, di un sistema di sopraffazione che ci riguarda molto da vicino e nasce anche nelle nostre scuole».
Importante anche l’introduzione dell’assessore alla Cultura Gianluca Poldi, che, insieme al vicesindaco Luca Stanca, ha rappresentato l’amministrazione comunale. «Una tematica di così drammatica attualità non ha bandiera politica né colore», ha spiegato Poldi. «La storia della ‘ndrangheta nel nord Italia riporta veri e propri bollettini di guerra. Le forze dell’ordine fanno un lavoro estenuante, ma i tentacoli delle cosche arrivano ovunque in modo subdolo. Solo a Segrate abbiamo ben tre beni sequestrati alla mafia». Ad aprire la conferenza ci ha pensato Elia Minari, giovane fondatore dell’associazione Cortocircuito e autore di “Guardare la mafia negli occhi”, un libro-inchiesta che ha fatto clamore nell’ambito della lotta alla criminalità organizzata. «Nel 2009 desideravo comprendere cosa stesse accadendo nel nord Italia e in Emilia, da dove provengo. Ho approfondito cercando di ricostruire i fatti attraverso documenti accessibili a tutti. Nomi, cognomi e legami, atti delle imprese, piani urbanistici, delibere comunali e regionali. Ho collegato fatti e posto domande a sindaci, medici e imprenditori. Mai avrei pensato che tante persone potessero essere colluse. Ho formulato inchieste che sono poi state proiettate anche durante processi importanti. Questo ovviamente non ha fermato i vari boss dall’ostentare spregiudicatezza. Gente come Nicolino Grande Aracri, che si vendono per persone che non sono, che si presentano come benefattori, imprenditori che danno lavoro, propensi a favorire la collettività, non si mostrano come malavitosi, finanziano associazioni solo per farsi voler bene dalle comunità e usano i social network come  terreno di movimento per diffondere un’immagine distorta e acquisire consenso sociale, favoriscono ostentazione verso i più giovani, mostrano armi e soldi su Facebook, evocano religiosità e raccontano una vita di agi ottenuta spalleggiando la mafia».
Diverso è stato l’intervento di Mario Portanova, giornalista de “il Fatto Quotidiano”. «La forza della mafia sta nelle sue relazioni esterne, non si limita a svolgere attività illegali, ma agisce illegalmente negli ambiti dei contesti legali, come la finanza», spiega lo scrittore. «I giovani sono stati protagonisti di un ricambio generazionale all’interno delle cosche e quello che leggiamo oggi è un grido di dolore della direzione distrettuale antimafia di Milano: la mafia ha risentito solo parzialmente delle misure prese dalle forze dell’ordine negli ultimi anni, la repressione è stata emergenziale e non strutturale, le famiglie crescono, mutano e, al tempo stesso, rimangono. Gli stessi nomi si ripropongono sempre, da decine di anni, pur avendo subito arresti ingenti e sequestri sostanziosi. La Lombardia ha ospitato tutte le quattro mafie principali, ‘ndrangheta, camorra, cosa nostra e la mafia pugliese. Perché è radicata nel tessuto produttivo la criminalità organizzata? Il radicamento avviene in modo territoriale, nei piccoli Comuni, in porzioni di territorio in cui le cosche sono da due o tre generazioni e vivono lontane dai riflettori, nei cosiddetti coni d’ombra. Tanto, per esempio, della mafia a Desio non importa a nessuno, non è come parlare di mafia a Milano. E poi in queste piccole zone è facile stringere relazioni o legami politici. Moltiplicare queste dinamiche in centinaia di Comuni lombardi dà l’idea della diffusione della ’ndrangheta. Il legame tra bene e male tende ad assottigliarsi per esplicito volere di questi criminali. Non c’è bianco e nero ma reciproca convenienza».
Poi c’è da fare i conti con un’analisi più materiale, vissuta ed elaborata sul campo. «Anche al sud, ormai, la percezione è che le ’ndrine siano più potenti al nord», racconta Alessandra Dolci, capo della direzione distrettuale antimafia di Milano. «Questa potenza è data da importanti fattori. Senza dubbio l’omertà gioca un ruolo di massima centralità. Nei piccoli centri urbani le cosche sono cosi radicate che tutti si sentono in dovere di tacere davanti alle efferatezze dei mafiosi. Pestaggi e intimidazioni servono a instaurare questo regime di terrore e anche le amministrazioni comunali spesso hanno minimizzato e banalizzato episodi dalla certa matrice palesemente criminale. Per questi motivi i processi e le inchieste sono molto difficili da portare avanti. In questo senso, la storia recente di Cantù è emblematica. Le ritorsioni verso chi non rispetta l’omertà sono tristemente note, solo a Pioltello è stato trovato anni fa il corpo carbonizzato di un mio collaboratore di giustizia. Tanti processi, tante condanne, ma alla fine i nomi sono sempre quelli e te li ritrovi sempre in giro. Quelle che sembrano pene severe si riducono drasticamente per la buona condotta e i benefici penitenziari sono spesso estesi dalle istituzioni europee anche a chi ha commesso crimini gravissimi. Il carattere rieducativo della pena a volte è solo una scusa utilizzata dalle cosche per rigenerarsi dopo le sentenze. Ma io, come chi lavora con me, non mollo e non mi perdo nello sconforto. Sono un soldato, combatto senza stabilire se si vince o si perde la guerra».
Mattia Rigodanza