23 Aprile 2020

Probabilmente mai, neanche volando con la più fervida fantasia, avremmo potuto immaginare il nostro medico di famiglia entrare nell'abitazione di un paziente, “scafandrato” dalla testa ai piedi. Ma si sa, la realtà spesso supera la fantasia. “Bisogna portare tutti i dispositivi di protezione in un sacchetto: la mascherina, il cappuccio con la visiera, la tuta sterile, i guanti. Vestirsi sul pianerottolo prima di fare ingresso nell'appartamento. Non è facile visitare in questo modo, gli occhiali si appannano, si suda; anche per l'ansia, sì. Quella c'è ogni volta, ma la preoccupazione principale non è per me in prima persona, il pensiero va sempre ai miei familiari. Finita la visita si esce dall'appartamento e ci si sveste liberandosi di tutte le protezioni, che potrebbero essere potenzialmente contaminate, seguendo una metodica precisa e rigorosa volta ad evitare di entrare in contatto con le parti esterne dei dispositivi. Da metà marzo ad adesso ho visitato quattro persone così, erano quelle che mostravano sintomi più gravi e che meritavano di essere viste personalmente per decidere se inviarle in pronto soccorso o meno”.

A parlare è Cristoforo Cassisa, ecografista, specialista in endocrinologia e medico di base a Milano 2 sin dal 1994. Fa parte, insieme ai tanti colleghi, di quella categoria che ultimamente tendiamo a considerare composta da eroi, dimenticando quanto invece siano umani, stanchi, talvolta affranti e in ogni caso pronti a salvare le nostre vite rischiando le proprie. “Ricordo che a gennaio ci trovavamo in piena epidemia influenzale” ha raccontato il medico ripensando ai primi momenti, quando ancora non erano chiare identità ed entità di questo contagio da nuovo coronavirus. “Visitavamo liberamente, sia in ambulatorio che a domicilio, senza nessun tipo di presidio protettivo e l'eco delle prime indicazioni, all'epoca ancora lontana, era tranquillizzante. Io e qualche collega per scrupolo avevamo già iniziato ad usare guanti, camici monouso e mascherine, quelle semplici, ma niente di più. Politici, virologi e professori rassicuravano e noi facevamo lo stesso con i nostri pazienti, ma poi nel giro di dieci giorni, verso fine febbraio, di colpo ci siamo trovati catapultati nel vortice di un'epidemia mostruosa, in prima linea sul territorio e abbandonati. In quel momento ci siamo resi conto di come quello che stavamo vivendo fosse solo la punta di un iceberg”.

Un virus completamente nuovo, nessuno storico, nessuna letteratura alla quale affidarsi e direttive confuse. “L'avere indicazioni contrastanti, persino sulle terapie, è stato spaventoso” ha continuato Cassisa, che attualmente segue a distanza circa 80 pazienti con sintomi sospetti. “Inizialmente il ministero della Salute dispose la chiusura degli studi, l'interruzione delle visite a domicilio e consentì il lavoro solo in remoto, con monitoraggio telefonico della condizione dei pazienti: a marzo ricevevo circa 150 telefonate al giorno, ma ci sentivamo impotenti. Fino a che, con il contributo di molti colleghi, ha preso vita una piattaforma spontanea, su Whatsapp, creata dalla dottoressa Frosali di Milano e dal dottor Mangiagalli di Pioltello, attraverso la quale abbiamo iniziato a condividere esperienze, dati, informazioni. Una vera e propria task force medica virtuale che ci ha permesso di stilare un nostro protocollo di terapia e tornare ad operare in attivo con schemi precostituiti che stanno dando buonissimi risultati”.

Ora che le acque dell'emergenza sanitaria iniziano a calmarsi e si avvicina la cosiddetta fase due, tra i medici resta però un po' d'amarezza. “In 70 abbiamo recentemente sottoscritto una lettera, inviata al ministro Roberto Speranza, nella quale manifestiamo tutte le perplessità ed esponiamo le nostre idee su come affrontare la prossima fase. Fino ad ora purtroppo le risposte sono sempre state vaghe ed evasive. La nota dolente sono e rimangono i tamponi. Molti cittadini che ho avuto in cura o che hanno già terminato la quarantena, e che stanno bene, aspettano la certificazione che gli permetterebbe il rientro al lavoro, ma i tamponi per la prova definitiva non si sa quando arriveranno e dunque restano bloccati in casa. Insomma, sono stati fatti tanti errori, ma possiamo imparare e renderli costruttivi. Per il resto, la scienza va avanti e riusciremo a vincere. Nel mentre, continuiamo a prenderci cura dei nostri pazienti: apprezzano moltissimo, spesso mi chiamano anche solo per sapere come stiamo io e la mia famiglia, è una bellissima manifestazione d'affetto”, ha concluso.

Eleonora Pirovano