10 Maggio 2019

Un viaggio di piacere in Kenia, a Malindi, insieme alla figlia ha cambiato per sempre la vita di Giuseppina Maccari e di tanti bimbi africani.
La sala dello Sporting è gremita di persone e, per la prima volta in 15 anni, ci sono anche tanti bambini.
Sono seduti in prima fila insieme a Stacy (11 anni), Ophra (8 anni), e Barbara (6 anni), tre bellissime bambine con la pelle di velluto scuro, gli occhi neri adornati da lunghissime ciglia e un sorriso illuminato da smaglianti perle bianche.
Sono tre dei “figli” africani di Mama Giusy, venute con lei in Italia dove di solito si fermano per uno o due mesi.
C’è anche un percussionista africano, Baba Diarra, con il suo bellissimo tamburo in legno intarsiato di cui ci spiegherà con fierezza alcuni particolari. Sarà lui ad accompagnare le bimbe nelle danze e nei canti tradizionali, e loro, con innata eleganza e fanciullesca grazia, coinvolgeranno adulti e piccini trasformando la sala in una festa imprevista e travolgente.   
Con la sua voce dolce e pacata, Giusy racconta come è cominciata la sua incredibile avventura: «Dopo solo due giorni di viaggio il suo senso è mutato e il modo di viverlo ha preso una direzione diversa dal previsto. La visita ad alcuni orfanotrofi ha provocato un vero terremoto dentro me. Tornata in Italia, il pensiero di quei bambini ha cominciato a farmi star male. Non riuscivo a pensare ad altro. Era diventato il mio “Mal d’Africa”, ma era un dolore struggente e sentivo il bisogno di scappare da qui per tornare da quei bimbi e dai loro immensi occhi neri e lucidi. Ho deciso dunque di ripartire per l’Africa. Non è stato facile, ho dovuto vincere anche la diffidenza dei miei quattro figli, contrari al mio progetto perché, essendo ipovedente, pensavano fosse troppo pesante per me. Ma io sentivo che non potevo fare altro. E così torno più volte in Kenia portando valigie cariche di riso, farina, fagioli cercando di portare aiuto in questi poveri villaggi. Ma ben presto capisco che non può bastare. C’erano miriadi di bambini che vivevano, e vivono, in condizioni indicibili, abbandonati e, spesso, lasciati morire di qualche malattia oltre che di fame. Decido così di prendere  una casa in affitto e di accogliere alcuni di questi bambini. Adesso sono 15. Faccio quello che posso per loro, li ho levati dalla strada, li ho regolarmente iscritti a scuola e li curo quando sono ammalati, ma soprattutto cerco di dare loro il calore e il conforto di una vera “famiglia”».  
Una casa piena di allegria, di voci, di suoni ma anche un luogo dove l’ordine e la disciplina sono regole fondamentali da rispettare.
La rastrelliera con tutte le scarpe allineate e lucidate, gli indumenti personali di cui ognuno si deve fare carico di sistemare una volta lavati e stirati, le stoviglie da lavare dopo pranzo e la tavola da apparecchiare a turno, sono tutti compiti che i ragazzi fanno automaticamente senza mai mettere in discussione nulla. E sono lodati quando lo meritano ma anche sgridati o puniti se occorre.
Faccio una domanda a Giusy e la sua risposta mi porterà, anche a distanza di tempo, a riflettere e riconsiderare fatti e azioni.   «Giusy, tu vivi lunghi periodi a Malindi, immersa in quella realtà tanto diversa dal nostro “modus vivendi” . Quando torni in Italia cosa noti e che considerazioni fai?».
Ed ecco la risposta: «La prima cosa è lo sguardo dei bambini italiani. Sono spesso annoiati, distratti o scontenti. Rare volte ho visto nei loro occhi quella gioia che invece vedo spesso in quelli dei miei “figli africani”. A Malindi i miei ragazzi giocano all’aria aperta a pallone, in mezzo alla polvere o la sporcizia, ballano e cantano per strada e quando tornano a casa sento le loro risate che riempiono il vuoto delle stanze. Qui in Italia ho anche dei nipoti, che amo molto, ma li sento distanti e “diversi”. Preferisco che non si frequentino con i miei “ragazzi”quando li porto in Italia, non voglio che possano essere influenzati da situazioni e sistemi di vita che non gli appartengono e che non gli sarebbero utili. I vostri figli hanno tanto ma non sanno gioire delle piccole cose e certo non è colpa loro. Io vivendo in Kenia con loro ho capito che a un bambino basta poco per essere felice, siamo noi adulti che abbiamo bisogno di dargli tanto per soffocare il vuoto della nostra “presenza affettiva” nella loro vita. Quando abbraccio uno dei miei “figli” per confortarlo sento tra le braccia la dolcezza della gratitudine reciproca, così rara e poco praticata altrove».
Le parole di Giusy mi riportano alla mente una frase che la mia nipotina Micol, di 6 anni, presente in sala anche lei e subito attratta da Barbara, sua coetanea, mi disse una sera mentre eravamo abbracciate nel suo lettino per il saluto della buonanotte: «Stai ferma nonna, ascolta. I nostri cuori si stanno parlando». In quel momento ho sentito quanto siano migliori di noi i bambini e quanto profondi siano i loro sentimenti, ancora sostenuti dalla purezza del pensiero. Se avessero più tempo per ascoltare il silenzio dei loro cuori e per apprendere l’universale linguaggio dei veri sentimenti! L’eccezionalità della storia di Mama Giusy è un mosaico di piccoli grandi gesti scaturiti da un amore puro e disinteressato.Ma soprattutto è incredibile pensare che Giuseppina Maccari ha creato tutto ciò attingendo solo alla sua pensione di invalidità e al sostegno dei figli e degli amici che la stimano e la supportano come possono. Lula Rossi, nostra socia a cui si deve l’opportunità di questo bellissimo incontro con Mama Giusy, è andata spesso a trovarla a Malindi e per aiutarla ha scritto un libro di ricette della cucina swahili, che ha riscosso grande successo e di cui sono state vendute diverse copie nel corso della serata. Chi volesse saperne di più sulla “famiglia” di Mama  Giusy può visitare il sito http://angelsonlus.org/.