10 Giugno 2016

Chi è “ingabbiato nella maschera” non vede il proprio Sé ma coglie in essa l’unico ed esclusivo modo di esserci.
Per una volta non parlerò di adolescenza, ma  parlerò di chi in età adulta si trovi a confrontarsi con un se irrisolto, proprio come quello con cui si confronta un adolescente, a causa di un deficitario holding ricevuto nell’infanzia, o a causa di traumi subiti o per  una propria predisposizione..... una molteplicità di fattori insomma, che possono  comportare un’ alterazione  degli equilibri   tra la strutturazione interna di una persona ed il rapporto con il mondo esterno con conseguenti difficoltà nella vita adulta ad esprimere spontaneamente se stessi e a fare legame.
In realtà Nessuno di noi può mostrare interamente sé stesso perché quasi nessuno si accetta completamente   per cui, tutti in maniera più o meno evidente, sviluppiamo delle maschere che sono sia di copertura che di protezione.
Esse nascono dal fatto che, fin da piccoli, siamo chiamati ad intrecciare complicatissimi rapporti tra la nostra coscienza individuale, la famiglia e la società.
È chiaro che le esigenze ed i bisogni personali non sempre possono collimare con ciò che ci viene richiesto dall’esterno per cui, in questo sfondo di situazioni, siamo costretti a forgiare delle maschere che, se da un lato ci aiutano a relazionarci con il mondo evitando di sentirci troppo spesso “nudi e senza difesa”,  dall’altro, soprattutto quando sono troppo rigide, ci spingono a nascondere la nostra vera natura fino al punto di sviluppare un falso Sé.
Le maschere tuttavia, sono anche necessarie e, se ne siamo un minimo coscienti, ci aiutano ad entrare ed uscire dai vari ruoli a cui la società ci chiama: ci sono circostanze in cui dobbiamo mimetizzarci di più ed altre  dove possiamo respirare perché possiamo lasciarci andare ed essere più veri e spontanei.
Talora però, pur di garantirsi “a tutti i costi” la protezione dell’altro, o per sentirsi più “adatti”, alcune persone sono disposte ad “affidare la propria anima al diavolo”, ossia sono disposte   a qualsiasi menzogna, a non essere mai se stessi, con il rischio  di rimanere fissati nell’inautenticità, in ruoli altri,  nella propria maschera …. insomma in una falsa modalità dell’esserci.
In questi casi la  maschera diviene  un “troppo” che caratterizza (troppo buono, troppo servizievole, troppo iroso, troppo passivo, troppo sfuggente, troppo arido ecc.) e che fa emergere emozioni parassite, che occulta emozioni indesiderate. ….che impedisce di “essere”
Diviene  un eccesso, un comportamento automatico che si ripete, una finzione funzione, che raggiunge lo scopo di mitigare l’angoscia della solitudine attraverso dinamiche di controllo e potere.
È in questo modo che  la maschera – il nostro falso Sé – si impadronisce della nostra essenza non permettendoci di contattarla anzi, finisce per produrre pensieri e comportamenti che non ci appartengono ; una maschera troppo rigida tende a portare a regressioni il che può essere un vero pericolo per la psiche che si trova a non avere un sufficiente spazio per crescere.
È quindi importantissimo capire bene quali sono le “maschere” che abbiamo dovuto indossare in modo da utilizzarle al meglio per sviluppare le qualità e capacità intrinseche che possono poi guidarci
alla costruzione della reale identità del nostro Io.
Per evolvere, conoscere ed amare in autenticità d’intenti, per guarire le nostre relazioni ed il nostro corpo, occorre che diventiamo consapevoli delle nostre maschere e del modo in cui ci imprigionano nelle nostre quotidiane menzogne.
La grave crisi dell’’affettività che caratterizza la società di oggi,  come si evince, ad esempio, dalla confusione fra desiderio sessuale, amicizia e amore,  secondo molti autori nasconde qualcosa di più profondo di un diffuso individualismo, ovvero alla base di tale disordine affettivo sembra esservi  la paura dell’altro, il bisogno negato attraverso una maschera di  illusoria autosufficienza e il rifiuto  di stabilire  legami duraturi.
Il legame con l’altro esige   una relazione asimmetrica, e autentica  che ha nel dono di sé la vetta più alta. Infatti, in ogni relazione interpersonale in cui si riesce a uscire da sé verso l’altro per rispettarlo, onorarlo e amarlo, si dà una reciprocità asimmetrica, in quanto uno può darsi nella misura in cui, a partire dal dono della vita, ha ricevuto rispetto, onore e amore ancor prima che lui potesse ricambiarli.
Perciò si può parlare di un’asimmetria originaria fra il ricevere e il dare, che ha alla base un sentimento di giustizia e fiducia:
abbiamo ricevuto amore, perciò siamo motivati a darlo, e abbiamo fiducia di poterlo ricevere ancora.
L’affettività postmoderna sembra preferire convivere  con i surrogati dell’amore, come il sesso, la passione, l’erotismo, legami fluidi, intercambiabili, che non richiedono autenticità né confronto e neppure  l’asimmetria del dono di sé, giacché esso richiede lavoro, pazienza e sacrificio: il risultato della decostruzione dell’amore è però la sua progressiva scomparsa.
Solo l’affettività-relazionale, senza maschera,  ci dà  infatti la capacità di comprendere-amare l’altro e di comunicare ciò che sperimentiamo a qualcuno che ci ama;  ma oggi  più che della solitudine sembra esservi il timore  del confronto, cosi che mascherati ci si affida a rapporti sempre più superficiali e mercificati, dove svalutando l’altro attutiamo la sua capacità di farci male ma anche la sua capacità di toccarci, travolgerci, condurci altrove
Ma da dove nasce la paura del legame ed il bisogno di molte persone di indossare una maschera?
Il più importante autore che sviluppo  il tema del Falso sé (maschera), fu Winnicott,  a partire dalla descrizione del rapporto del lattante con chi lo accudisce.
Winnicott identifica due tipi di “madre” (intesa come la principale figura che accudisce  il bambino): la “madre sufficientemente buona” e la “madre non sufficientemente buona”.
La “madre sufficientemente buona” è in grado di svolgere le tre principali funzioni materne: 1) tenere in braccio il bambino, 2) manipolarlo, 3) presentare gli oggetti, inoltre è in grado di andare incontro al senso di onnipotenza del lattante e di darvi un senso.
Questa è una madre che permette al lattante di percepire e di dare un significato alle proprie emozioni, simbolizzandole.
La presenza di una madre in grado di “significare” il gesto spontaneo del neonato, cioè di permettere al neonato di collegare la propria spontaneità al mondo esterno, fa si che la spontaneità acquisisca il diritto di esistere permettendo anche che il lattante mantenga, inizialmente, l’illusione di creare il mondo e di avere un controllo onnipotente su di esso.
La madre “non sufficientemente buona” ha, invece, un modo di interagire con l’infante che ne influenza in modo specifico la formazione del pensiero.
Questa madre non è in grado di adattarsi alle pulsioni ed ai gesti spontanei del figlio, potenziali anticipatori del pensiero, ma ripetutamente vi sostituisce il proprio gesto chiedendo al figlio di adeguarsi a questo, chiedendo in altri termini al figlio di accondiscendere. L’accondiscendere del bambino è il primo stadio del falso sé e rappresenta il prodotto di una scissione del sé tra quelle che sarebbero le potenzialità del bambino, che si esprimono tramite i gesti spontanei, e quella che è la richiesta genitoriale.
Il bambino con questa scissione vivrà in modo falso, la compiacenza e l’imitazione caratterizzeranno i suoi rapporti anche se attraverso l’introiezione di modelli dati la sua vita potrà sembrare normale.
Crescendo “diventerà proprio come la madre, la baby-sitter, la zia, il fratello o qualsiasi persona che in quel momento avrà dominato la scena”.
La compiacenza diviene quindi una difesa che il bambino adotta per essere visto, per esistere nelle relazioni con gli adulti, che però produce danni molto pesanti perché porta ad un tradimento degli istinti e delle pulsioni.
La persona subirà un danno nell’area del soddisfacimento del bisogno di intimità, avrà difficoltà ad affidarsi e fuggirà i legami.
La mancanza di un adeguato rispecchiamento dal caregiver nell’infanzia, quindi, interferisce con la capacità di sentirsi completi, di amare e ammirare se stessi.  Quando da bambini non si è avuto una figura di accudimento “sufficientemente buona”, si passa la vita tentando di trovare dei sostituti del calore e del conforto materni, che a volte si risolvono in meri surrogati oppure temendone l’impatto devastante per la propria psiche, si passa la vita a sfuggire qualsiasi tipo di legame o a negare i propri bisogni di vicinanza.
Quindi   perché il bambino , e successivamente l’adulto, impari a  sentire che la vita è reale e degna di essere vissuta, è necessaria una holding (contenimento) che gli permetta di esperire un ambiente affidabile fonte di quel senso di Sé progressivamente emergente, che si manifesta come: sentimento di essere vivi e  d’integrazione (continuità); un contesto relazionale responsivo e sensibile, con figure familiari disponibili in modo costante in cui la  ricerca di protezione possa trovare  conforto.
Vengono così costruite, nel corso delle interazioni quotidiane aspettative positive  rispetto all’altro che caratterizzeranno la persona nel corso dell’intera esistenza e permetteranno la costruzione di legami autentici e la spontanea espressione di ciò che si è .

Dott.ssa Simona Siani, Medico Chirurgo Neuropsichiatra
Psicoterapeuta
bambini e adulti
Consulente del Tribunale
Criminologa
sasperl@gmail.com