11 Dicembre 2015

Soli davanti al computer e con lo smartphone in mano, intenti a chattare con amici, più o meno reali, sui social network. Una “generazione multitasking”, quella degli adolescenti di oggi, nata e cresciuta in un’era digitale che ha introdotto nuove forme di interazione sociale e un linguaggio del tutto inedito, anche se sempre più povero. Ma quali sono i rischi connessi a un utilizzo eccessivo e non controllato della rete? L’utilizzo delle tecnologie informative se da un lato ha portato e sta portando un grande progresso nelle conoscenze, dall’altro può costruire un fattore di rischio rilevante in fasi della vita, come l’adolescenza, in cui la struttura della personalità dell’individuo è in fase di consolidamento ed espansione.
Aspetti neurobiologici dello sviluppo del cervello evidenziano come quello degli adolescenti, nell’immediatezza che caratterizza il web, sia più malleabile e plastico ma anche meno incline a prestare attenzione per più di alcuni minuti ad esempio alla lettura di un libro o alle parole di un insegnante. Ciò che viene alternato, in questo modo, sono i circuiti deputati al passaggio dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine, rivoluzionando il modo in cui la mente archivia e organizza ricordi ed esperienze. I “nativi digitali” possono infatti contare su un terzo sistema di memoria, rappresentato dai motori di ricerca come Google, che evita alle informazioni di passare nella memoria a lungo termine, perchè disponibili semplicemente con un click. Come per ogni altro strumento della nostra realtà culturale, non si può dire che gli effetti siano positivi o negativi in sé, è l’uso che se ne fa a determinare la differenza.
A parte la grande possibilità di sperimentazione autonoma e l’enorme messe di informazioni (più che di conoscenze, secondo me) che vi si può trovare, la Rete fornisce agli adolescenti la possibilità di un contatto facile con coetanei con cui condividere esperienze, impressioni, sensazioni e pensieri, ottenendo così un prezioso lenimento per le angosce identitarie, così intense in questa delicata fase della vita.
Non è poi così diverso da quando, una o due generazioni fa, gli adolescenti passavano ore al telefono per fruire di un’analoga condivisione emozionale con i coetanei (sappiamo quanto sia importante per gli adolescenti condividere abitudini e modelli di comportamento, quanto siano portati a cercare l’identicità, come piccole differenze nell’abbigliamento - ma anche nella musica preferita - possano diventare elementi identitari sulla cui base dividersi in gruppi dai confini rigidi, la cui funzione sembra quella di rafforzare l’identità dei propri membri, esasperando le differenze rispetto agli altri).
Il compito che l’adolescente ha di fronte è quello, tutt’altro che facile, di trovare un equilibrio tra appartenenza (conformismo, omologazione) e differenziazione, tra bisogno di contatto e difesa di una quota minimale di soggettività. È questo il processo di soggettivazione, grazie al quale l’adolescente diventa gradualmente un adulto, caratterizzato da una identità personale differenziata, capace al contempo di autonomia e di dipendenza sana (non coattiva) dagli altri.
La Rete, pur essendo uno degli strumenti che possono favorire il transito adolescenziale, non è tuttavia esente da rischi, soprattutto per gli adolescenti più fragili, che possono farne un uso difensivo, antievolutivo.
Un possibile uso patologico traspare quando lo stare in rete diventa un bisogno coattivo, una sorta di dipendenza.
Il meccanismo coinvolto sembra essere quello implicato nelle più varie forme di dipendenza patologica (da cibo, da sostanze, da alcol, dal sesso, dal gioco d’azzardo): una modalità relazionale costrittiva che vincola il soggetto all’oggetto da cui dipende.
Il bisogno concreto e sensoriale la fa da padrone e occupa tutto lo spazio mentale del soggetto, ridotto ad uno stato di servitù. Nella ricerca di un contatto perenne si cela il desiderio di una onnipotenza autarchica, fondata sulla fantasia di avere un oggetto disponibile sempre, in qualunque momento.
Rispetto ad altre dipendenze, quella da Internet sembra socialmente più accettata, forse perché ritenuta meno dannosa, ed è in genere individuata con un ritardo molto maggiore. Le ragioni per cui si instaura una dipendenza dalla Rete possono essere svariate; vediamone un paio:
1) la ricerca coattiva di una conferma della propria esistenza/consistenza nell’essere visti dagli altri. Occorre allora essere in Rete (su Facebook o YouTube o altri social network) per sentire di esistere, di esserci.
La Rete diventa il sostituto degli occhi della madre nella primissima infanzia.
Può accadere che, negli adolescenti più fragili, si verifichi così una specie di perversione del bisogno di rispecchiamento, che viene sostituito dalla ricerca coattiva dell’apparire. Le reazioni del “pubblico” vengono utilizzate come tasselli nella costruzione di un’immagine di sé che possa colmare le loro falle identitarie.
Gran parte delle condotte oppositive e antisociali degli adolescenti hanno qui loro radici in un precario sentimento identitario. La ricerca di un’identità negativa reificata assolve la funzione di fornire una qualche consistenza, come potrebbe fare un esoscheletro.
2) L’evitamento delle relazioni “in carne e ossa. Nei rapporti “virtuali”, il contatto, superficiale e bidimensionale, prende il posto della relazione: si pensi all’elenco degli “amici” in Facebook e alla sua funzione di conferma narcisistica (più amici ho, più sono popolare e importante); una sorta di collezionismo in cui l’apparente possesso concreto, testimoniato dall’accettazione dell’altro di essere incluso nell’elenco degli amici, prende il posto dell’incontro “carnale”, in cui sia il soggetto che l’altro sono coinvolti con tutti i sensi e non solo con la loro immagine. Il mostrarsi prende il posto dell’incontrarsi, il contatto quello della conoscenza e dell’intimità nella differenziazione. Per esempio, non occorre più tenere in mente la storia di un amico, ricordare le sue confidenze o anche semplicemente la data del suo compleanno, tanto “è in Facebook”. Così può accadere che stormi di messaggi di auguri anonimi e preconfezionati si sostituiscano ad un pensiero autentico, frutto di una relazione dotata di spessore, in cui ci sia spazio per il ricordo, il desiderio e l’attesa. I contatti si fanno sempre più rapidi e superficiali, si diffonde un lessico impoverito e spersonalizzato, la velocità prende il posto della profondità. Sms, chat, twit. Forme di comunicazione veloce, che mantengono in continuo contatto concreto con “amici” virtuali, carburante narcisistico a poca spesa rispetto all’impegno richiesto da una reale conoscenza e da una relazione profonda.
Vorrei citare al proposito un’affermazione profetica di Eugenio Montale: “Comunicare, comunicazione, parole che se frugo nei miei ricordi di scuola non appaiono. Parole inventate più tardi, quando venne a mancare anche il sospetto dell’oggetto in questione” (1984). Queste modalità relazionali sono fisiologiche e anche utili nell’arco dei primi anni dell’adolescenza, diventano invece inquietanti se si cristallizzano. Esse palesano infatti il bisogno di evitare di mettersi alla prova, il terrore di esporsi ad offese narcisistiche che potrebbero annientare un sé troppo fragile. In generale, poi, la Rete sollecita l’onnipotenza: c’è l’idea di trovare tutto, sempre disponibile, nell’attimo stesso in cui lo cerchi, senza il tempo sufficiente a far nascere una curiosità e una tensione conoscitiva; ma è come avere una montagna di libri senza possedere scaffali e criteri con cui poterli ordinare. Possesso concreto privo di spessore soggettivo invece che conquista personale stabile. Le conseguenze sono individuabili in una riduzione crescente della tolleranza alle frustrazioni, una tendenza ad agire nel concreto (fosse anche solo sulla tastiera), una negazione della dipendenza dall’altro e un progressivo impoverimento della capacità di provare desiderio e piacere, tutti elementi che mi pare si vadano infiltrando anche nella nostra società adulta. Non sono solo gli adolescenti ad avere un’attenzione quasi ossessiva per l’apparire e per l’apparenza, anche tra gli adulti ha preso sempre più piede una cultura in cui l’abito fa il monaco. Concludendo, direi che nell’uso patologico (non nell’uso in sé e per sé) della Rete e dei social network trova espressione di un senso di inconsistenza che ha radice, nella storia personale di ognuno, e nella marginalizzazione degli adolescenti nelle attuali società occidentali. Costretti ad una sosta eccessivamente prolungata nel guado adolescenziale, deprivati del potere di incidere sull’ambiente in cui vivono, possono ritrovarsi costretti a “giocare” in modo compulsivo e ripetitivo in un universo virtuale che li ripari da frustrazioni eccessive.
In questa prospettiva, certi usi patologici e perversi della Rete costituiscono anche la punta dell’iceberg di un crescente disagio sociale.
Simona Siani