17 Marzo 2017

Coordinate dalla professoressa Gabriella Zipoli, il 28 febbraio le classi 3A, 3B, 3C e 3D del liceo scientifico Machiavelli si sono recate in aula Mosconi per assistere a una conferenza tenuta dall’autore del libro “Il gene del diavolo”, Baroukh Assael. Lo scrittore è stato per lungo tempo docente di pediatria all’Università Statale di Milano e direttore del Centro di fibrosi cistica a Verona. Oltre a questo libro ha pubblicato diversi trattati sulle malattie genetiche ed infettive. Nel corso della conferenza il professor Assael ha raccontato della sua ultima “fatica letteraria”, nella quale cataloga diverse malattie genetiche, descrivendone la storia, i sintomi, gli effetti sull’uomo e le possibili cure. Il tema centrale del libro è la fibrosi cistica, una delle malattie genetiche più diffuse in Italia, con un’incidenza di 1 su 2500 persone. Essa causa seri disturbi all’organismo che ne è affetto, come infezioni polmonari, insufficienza pancreatica, cirrosi epatica, ostruzioni intestinali e infertilità maschile. Nonostante la gravità e la diffusione di questa malattia che, se trascurata, può risultare mortale, in Italia molti non ne sono sufficientemente informati, e non sanno che esistono dei test genetici che consentono di verificare se si è portatori sani oppure no. L’incontro, costruito in forma di dialogo con la madre di un ragazzo affetto da questa malattia, ha aperto gli interessi degli studenti verso le nuove frontiere della ricerca medica. E al termine della presentazione Baroukh Assael ha accettato volentieri di farsi intervistare dai ragazzi
Cosa l’ha spinta a scrivere questo libro?
«Questo libro nasce dalla mia pratica come medico responsabile del Centro Fibrosi Cistica del Veneto che ho diretto per diversi anni. A partire dalla fine degli anni 1990 abbiamo notato un calo di nascite di bambini colpiti dala malattia e abbiamo poi capito che era dovuto alla diffusione del test del portatore nella popolazione veneta. Cioè le giovani coppie  si sottoponevano al test genetico che permette di capire se una persona è portatrice sana, quindi senza nessun segno di malattia, di mutazioni genetiche che provocano la fibrosi cistica. Se due persone pensano di fare un figlio e sono entrambi portatrici esiste un rischio elevato (25%) di far nascere un bambino malato. Evidentemente, in Veneto la diffusione del test e le scelte procreative hanno portato a una riduzione importante del numero di nuovi bambini malati. A partire da questo mi sono chiesto quali altre esperienze nel mondo esistono di diffusione di test genetici che permettono di inividuare coppie a rischio. Il libro nasce da questa ricerca. Ho trovato diversi esempi e da lì mi sono posto problemi più generali. Questi test dovrebbero essere più diffusi?
È giusto usare i test genetici per evitare la nascita di bambini malati? Chi deve difendere l’interesse di una persona non ancora nata?»
Come mai ha scelto proprio “Il gene del diavolo” come titolo?
«Spesso i titoli sono scelti dagli editori. Parlando di malattie genetiche recessive (come la fibrosi cistica, ma molte altre ancora) sappiamo che la malattia non compare necessariamente ad ogni generazione, la mutazione genetica viene trasmessa ai figli portatori e la malattia può ricomparire a distanza di generazioni se si forma una nuova coppia di portatori. Sembra un meccanismo diabolico, ma conoscendo la genetica è perfettamente spiegabile».
Se potesse tornare indietro cambierebbe qualcosa?
«Non cambierei l’impostazione del libro, forse approfondirei alcuni aspetti. Ma ci vuole parecchio tempo per scrivere un libro e dopo circa 3-4 anni non vedevo l’ora di finire, almeno per chiudere un ragionamento. Approfondimenti sono sempre necessari, ma possono essere ripresi in ricerche successive».
Ha mai avuto il cosiddetto “blocco dello scrittore”?
«Non credo che esista questo blocco per chi si occupa di saggistica. Certamente, c’è per la narrativa o per la poesia. La saggistica dispone oggi di fonti infinite,
si trova di tutto e non è difficile confezionare un libro. Il problema è avere qualcosa da dire e non essere solo descrittivi. Provate a farvi un libro di genetica usando Wikipedia, lo fareste in un giorno. Ma qual è il messaggio che volete comunicare? Qual è il problema che volete affrontare o risolvere? Quale punto di vista volete difendere? Quindi bisogna essere problematici, avere un’potesi, una tesi, questo è il senso di scrivere un libro e può essere difficile. Molte idee quando vengono affrontate con l’idea di scrivere un libro sembrano presto molto banali, già affrontate, non si vede un vero problema. Vedo molti saggi nelle librerie e a volte penso che non fanno che rimacinare materiale già esistente, non capisco cosa vogliano dimostrare che già non si sappia. Sono solo rifacimenti o semplici descrizioni che non mancavano. Ho scritto altri libri di storia della medicina sulla storia della vaccinazione e sulla storia dell’epilessia. Poi sono rimasto fermo per diversi anni. Non sono uno scrittore di professione, non ho l’esigenza di scrivere. Scrivo per affrontare dei problemi che partono dalla mia esperienza e su cui vorrei sviluppare nuove ipotesi. Se questo manca è meglio non scrivere. Meglio leggere cose intelligenti che scrivere cose inutili».
Può ritenersi orgoglioso del lavoro fatto?
«Non sono orgoglioso, ma sono contento. È stata un’esperienza lontana dalla mia pratica (in fondo sono medico) ma utile per affrontare apparentemente distanti come l’antropologia, la sociologia, l’etica, la storia. E’ stato interessante, ho dovuto conoscere persone che esercitavano professioni diverse dalle mie e cercare di affrontare problematiche lontane dalla medicina. Questo è affascinante, è una sfida. Ogni esperienza del genere apre nuovi orizzonti. Non è una questione di orgoglio ma di soddisfazione per essersi aperti a nuovi interessi».
Come mai tra tutte le malattie genetiche ha scelto proprio la fibrosi cistica?
«Per la mia professione è stato non un caso ma un insieme di circostanze. Non era una vocazione, facevo il pediatra e mi occupavo d’altro. Poi ho avuto l’opportunità di conoscere persone che si interessavano della malattia, ho iniziato a collaborare con loro e mi sono avvicinato a questa malattia. Mi interessava concentrarmi su un aspetto anche limitato della medicina ma affrontarlo da diversi punti di vista come quello del rapporto col malato, la clinica, ma anche la ricerca epidemiologica o la ricerca di laboratorio genetica o molecolare. Limitarsi a una singola malattia permette di affrontarla da molti punti di vista. Per un certo verso è una limitazione, si limita il campo di intersse, ma si può valutare nella sua complessità. Una malattia è un fenomeno molecolare, ma anche antropologico, sociale, epidemiologico. Altri preferiscono evitare di rinchiudersi nella specialità di una sola malattia, temono l’eccessiva focalizzazione, Non detto regole, per me è stato così, a un certo punto della mia carriera ho pensato che valesse la pena focalizzarsi su un tema e affrontarlo da un punto di vista complesso, piuttosto che avere una visione più generale della pediatria».

 


Alessia Roti, Claudia Carravieri e Alessandro Baldi