11 Maggio 2020

All’interno delle mura spagnole, c’era una volta un regnante austriaco che fece progettare giardini alla francese. Così potrebbe iniziare la favola dei Giardini Pubblici di Porta Venezia dedicati al giornalista e scrittore Indro Montanelli che tanto li amava. Siamo nella seconda metà del ‘700 nel mezzo di orti, ruscelli e monasteri destinati a diventare la prima area di svago pubblico per la nobiltà milanese che prese presto l’abitudine di sfilare lungo queste prospettive alberate, attorno alle aiuole geometriche, ai boschetti e alle fontane di questi giardini il cui fascino resiste tutt’ora. E seppure oggi può capitare di attraversarli distrattamente (magari nei mesi più caldi cercando solo una scorciatoia ombreggiata dalle alte chiome degli ippocastani, degli olmi e degli aceri) sono molte le evidenze delle notevoli e continue trasformazioni che questa parentesi di pace ha subito prima di diventare i giardini che conosciamo i quali, è pur vero, si direbbe conservino solo il ricordo dei fasti trascorsi. La storia di questo luogo è innanzitutto una concreta testimonianza dell’ingegno di uomini illustri: studiosi, scienziati, artisti, ma anche di una catena di accadimenti, di vicissitudini strettamente legate alle alterne sorti della città, di coincidenze, alterne fortune, mode e colpi di genio. Esposizioni, padiglioni ottocenteschi, innovazione tecnologica, fiere… La storia di questi giardini rispecchia la spiccata vocazione scientifica e naturalistica di una città dedicata alla crescita, alla trasformazione, alla divulgazione e allo svago (che non è riposo, ma solo una diversa forma del fare). Al loro interno si sono tenute la prima esposizione industriale del 1870, la prima fiera campionaria del 1920; tuttora vi si trovano il Museo di Storia Naturale con i suoi animali impagliati e le pareti tappezzate di insetti sotto vetro, il Padiglione del Caffè sul Monte Merlo (da tempo trasformato in Scuola Materna), la volta celeste del Planetario Hoepli e, fino agli anni ’80 del secolo scorso, si trovava il giardino zoologico con sue le gabbie gremite e piscine a cielo aperto. Qualche traccia dello zoo è ancora riconoscibile, ma è poca cosa rispetto al tempo in cui il suo odore e i versi dei suoi abitanti (fenicotteri, scimmie, orsi, giraffe e grandi felini) raggiungevano le vie del perimetro esterno del parco. E ancora ci sarebbe molto da raccontare dei progetti, degli ampliamenti, delle demolizioni che hanno interessato questo piccolo, raro antico amato spazio verde del centro città. Ma veniamo ai nostri giorni durante i quali, in questi mesi di nuove e diverse difficoltà, altro non cerchiamo che luoghi per passeggiare e orizzonti aperti e senza pensiero dove posare lo sguardo. Anche quest’anno il 21 marzo la primavera è iniziata, ma nel giardino divenuto inaccessibile il vento agita nel sole le chiome più alte e queste rinnovate, ondeggiano nel vento già caldo come giovani meduse, ancelle di un mondo che non pare avere nostalgia dell’uomo. I bar, i giochi, il trenino e le giostre sono fermi, dimenticati, chiusi, presidiati da una dozzina di uomini illustri (Giacosa, Carcano, Montanelli…) monumenti di marmo e bronzo che sembrano appoggiati a caso su una scacchiera impossibile. Solo uccelli, anatre e roditori abitano i prati e i sentieri abbandonati di questa natura che sfugge esuberante al disegno dei suoi architetti. Questa strana primavera alterna giorni di sole ad altri grigi e piovosi. Siamo completamente usciti dall’inverno, ma restiamo bloccati nell’attesa, appiattiti, come personaggi di una fiaba che un incantesimo ha condannato all’inazione. In questi giorni di maggio la bella stagione ha preso il sopravvento, l’incantesimo sembra abbia perso il suo vigore e i giardini hanno riaperto al pubblico. Incontro tanti ciclisti, atleti di ogni disciplina e corridori sparsi come biglie lanciate dalle mani di giocatori ubriachi; e poi anziani, coppie, famiglie… E tutti conservano l’espressione sottotono dei partecipanti a una festa in maschera mancata. I rumori e le voci sono così rari e bassi che l’udito ascolta, nello spazio dilatato, segni di vita e motori più lontani. Tutt’attorno, sopra e sotto di me le radici stringono la terra, le cortecce ricordano, le chiome danzano, i fiori sorridono. Ecco due bambini che lasciano la nonna, le loro bici e attraversano scomposti l’aiuola correndo. Il più piccolo ridendo urla l’ultima scoperta: “Questo lo possiamo abbracciare!” e insieme si lanciano contro il vecchio tronco. Nei giardini cosparsi di laghetti e sentieri di rocce i grandi alberi vivono la loro vita immobile, ignari di noi, dei nostri pensieri, del caos e dei rifiuti che ci lasciamo dietro. Cammino tra gli alberi, lungo questi viali dove la storia affastella i suoi casi, e poco mi importa se attraverso la somma o l’avanzo di quello che è stato. I giardini insegnano che ogni storia ha i suoi tempi e avremo nuove stagioni per riparare, crescere, fare e disfare. Prima di varcare la cancellata che mi riconsegna alla strada mi sorprende l’eleganza austera, profusa di stelle e colonne senza tempo, dell’edificio del Planetario. Mi ricorda che il cielo notturno sopra di noi è la riva di un oceano più grande. Anche se siamo confinati, anche immobili, anche se oggi abbracciamo solo gli alberi, continuiamo a viaggiare nel sistema solare a bordo del nostro pianeta. 

Roberto Spoldi