2015-11-19

Ha vissuto quegli attimi drammatici in prima persona, a poche centinaia di metri dal Bataclan dove i terroristi uccidevano a uno ad uno centinaia di ragazzi che volevano solo ascoltare musica e divertirsi. La testimonianza dell’assessore Silvia Ghezzi, che venerdì si trovava a Parigi insieme al marito Luca Foresti, mette davvero i brividi anche se ascoltato dopo giorni e a 850 chilometri di distanza. «Eravamo a Parigi per un convegno di lavoro» racconta Ghezzi «e la sera l’organizzazione ci ha organizzato una cena nella zona sud della città. Per fortuna che abbiamo accettato e non voluto mangiare vicino a dove alloggiavamo. Questo potrebbe averci salvato la vita. Verso le 21.30, usciti dal ristorante, abbiamo deciso di fare una passeggiata per tornare all’appartamento, che poi abbiamo saputo si trovava a circa 200 metri dai luoghi degli attentati. Abbiamo notato uno strano dispiegamento di polizia e poi una serie di sirene e ambulanze, ma non sapevamo ancora nulla di cosa fosse successo. A un tratto, a poche centinaia di metri dall’appartamento la polizia aveva bloccato il passaggio mettendo le auto di traverso. Per  curiosità ci siamo avvicinati e abbiamo visto uomini con giubbotti antiproiettili ovunque. Lì abbiamo iniziato a intuire che fosse accaduto qualcosa fuori dall’ordinario. Puntavano le torce ovunque, erano nervosi». E poi l’attimo più terribile della serata. «All’improvviso è scoppiato l’inferno: gli agenti si sono gettati in terra e ci hanno gridato di fare altrettanto. Subito dopo, seguendo la massa, abbiamo iniziato a correre in una stradina laterale e ci siamo rifugiati in un bar dove un cameriere ci ha detto degli attentati. Nel locale una televisione trasmetteva le immagini e siamo rimasti impietriti». In quel locale Ghezzi e suo marito sono rimasti fino all’una e mezza di notte. «La polizia ci diceva di non muoverci, sui nostri telefonini hanno iniziato ad arrivare decine di messaggi di parenti e amici dall’Italia preoccupati, non si capiva più nulla. Il gestore voleva chiudere il locale, ma un poliziotto lo ha impedito spiegando che poteva esserci bisogno di fare rifugiare altra gente. Così è stato. Poco dopo sono entrate cinque o sei persone imbrattate di sangue. Ci hanno spiegato che erano fuggiti dal teatro Bataclan, erano sconvolti. All’una e mezza, quando la polizia ci ha detto che potevamo rincasare, testa bassa e gambe veloci, siamo rientrati nell’appartamento». E poi i giorni seguenti. Per certi versi altrettanto drammatici. «Sabato mattina la prefettura consigliava di rimanere in casa, ma noi abbiamo deciso di uscire lo stesso. Volevamo vedere con i nostri occhi e in un certo senso non darla vinta alla paura. Intorno al Bataclan era tutto recintato, con giornalisti provenienti da tutto il mondo. I visi dei parigini erano tiratissimi. Molti avevano gli occhi lucidi, alcuni di loro avevano perso un parente o un amico. Davanti al locale dove i terroristi hanno aperto il fuoco a raffica tutti portavano un fiore o una candela. Il clima era surreale. La domenica invece era già diverso. Una giornata di sole e Parigi si è svegliata con la voglia di reagire. In strada si è riversata molta più gente e si sono visti tanti bambini che il giorno prima non c’erano. Insomma la tensione non era sparita, ma il desiderio di non darla vinta ai terroristi era palpabile». Riflessioni su quanto accaduto le abbiamo fatte tutti. Inevitabile che anche chi ha vissuto in prima persona nei giorni successivi abbia analizzato l’accaduto anche se con occhi diversi da chi non era lì. «Con il passare delle ore ho capito una cosa: la nostra vita è appesa a un filo e bisogna viverla al meglio con trasporto. Non riesco a smettere di pensare che a noi è andata davvero bene. Venerdì pomeriggio eravano a una conferenza con 5mila persone di 110 nazionalità diverse. Potevamo essere un bersaglio. Come potevamo esserle quando siamo andati a visitare Expo nei mesi scorsi. Ma non possiamo farci fermare dalla paura. Dobbiamo vivere la nostra vita e le nostre emozioni al massimo. Solo così possiamo davvero battere il terrorismo».  
Roberto Pegorini