«Venire a Cernusco è come tornare alle origini quando giravo da sola per promuovere i miei libri». «Quando scrivo ho già la storia in mente, vedo le immagini come in un film». «I personaggi non mi comandano, guido io»

2015-12-04

È stata ospite domenica scorsa della “Bottega del libro” di via Bourdillon, incantando tutti per la sua semplicità e gentilezza. Non che una vincitrice del premio “Bancarella” non lo debba essere, per carità. Però è sempre piacevole quando neppure ti rendi conto che l’intervista a una scrittrice del calibro di Sara Rattaro si è quasi trasformata in una chiacchierata, tale è la sua disponibilità. E allora condividiamola insieme questa chiacchierata. È il caso.
Come fa una biologa a diventare scrittrice?
«Scrivere è una passione che avevo fin da bambina anche se avevo una grande paura di essere letta. Poi crescendo questa paura si è allentata, mi sentivo più sicura e qualche anno fa ho deciso di provare a dare una svolta alla mia vita. Ho cercato un editore che volesse pubblicare un libro che avevo scritto, la Morellini ha creduto in me e “Sulla sedia sbagliata” è stato pubblicato. Fortunatamente è piaciuto al pubblico ed eccomi scrittrice».
Mi racconti l’emozione quando hai visto pubblicato il tuo primo libro? Sei rimasta sorpresa del successo che ha ottenuto?
«Avevo sensazioni positive fin da subito e quando sono stata pubblicata ho provato una felicità e un entusiasmo che ora non riesco più a focalizzare con precisione. Però posso assicurarti che, seppure ogni volta che esce un mio libro senta una grande gioia, quella sensazione non l’ho più provata. “Sulla sedia sbagliata” è una storia non convenzionale, dai contenuti davvero forti e con una costituzione della trama complicata per una non scrittrice. Si parlava di femminicidio quando questa parola in pratica ancora non esisteva. Ora forse con la maturità acquisita lo realizzerei in maniera un po’ diversa però sento di poter dare un buon voto a questo libro».
Era il 2009. Sei anni dopo hai vinto il premio Bancarella con “Niente è come te”. Cosa hai provato quando l’hai saputo? La sensazione che ce l’avevi fatta visto il riconoscimento oppure per te continua a contare su tutto il giudizio del lettore?
«Il lettore viene sempre prima. Il Bancarella, che giuro è stato un riconoscimento inaspettato, più che altro mi ha dato l’idea che la mia vita sarebbe cambiata davvero. Per inseguire il mio sogno, quello di diventare scrittrice, ho lasciato il mio lavoro di biologa e ho rischiato. Il Bancarella mi è sembrata la risposta positiva a questo rischio anche se so benissimo che non è un punto d’arrivo e lo vedo come una partenza. E il mio orientamento va sempre verso i lettori. È il rapporto con loro che mi fa percepire se ho scritto cose belle. Non dimentico quando all’inizio facevo le presentazioni nelle librerie e non veniva quasi nessuno ad ascoltarmi».
Nel mezzo altri due romanzi, “Un uso qualunque di te” e “Non volare via”. Da lettore, quando ho terminato il primo ho pensato: se non siamo ai livelli di Margareth Mazzantini ci manca davvero un centimetro. Come è nato un libro così pazzescamente coinvolgente?
«Un colpo di fortuna. Ho avuto un’illuminazione ed è uscita questa esplosione di fantasia. È stato come prendere uno schiaffo ed ecco che è nato il personaggio di Viola. Non avrei mai pensato che “Un uso qualunque di te” potesse avere così tanto successo. In fondo sentivo ancora una spinta che mi portava a raccontare senza pensare a una storia vera, a differenza di “Niente è come te”».
A proposito di storie: le tue crescono mentre le stai scrivendo o hai già tutto in testa quando ti metti davanti al computer?
«Ho già tutto in testa prima di iniziare. Le storie che narro è come se le avessi già viste. Ho in mente le immagini propro come se vedessi un film, so benissimo dove andrò a finire. Poi chiaramente si portano miglioramenti e correzioni, ma il filone è già ben chiaro dentro me fin da subito».
Non ti capita mai che i personaggi a un tratto prendano una strada diversa come se acquisissero vita autonoma?
«Direi di no. Quando è capitato qualcosa di simile il libro non l’ho finito. Sono io che comando e loro sono in linea con me. Scrivendo in prima persona tendo a conoscere bene la psiche dei personaggi e non possono uscire da un certo schema».
So che uno scrittore vuole sempre essere se stesso, ma posso chiederti se hai qualche autore di riferimento? Qualcuno che quando leggi pensi: ecco questo è proprio un fenomeno?
«Amo molto i romanzi, sono figlia del neorealismo italiano che si studia a scuola e credo che questo abbia indirizzato la mia scrittura. Poi da grande ho fatto scelte narrative un po’ diverse. Posso dirti che adoro Jodi Picoult, la leggo e ho la sensazione di trovarmi davanti a una proprio brava. I suoi libri sono molto emozionali e io riesco a capirla al volo. Ti aggiungo che scrivere in maniera così emozionale è quello a cui aspiro».
C’è un libro che hai letto e che vorresti aver scritto tu da quanto ti sia piaciuto?
«In realtà mi è capitato con tanti. Con quelli di Jodi Picoult, e i suoi medical drama, direi quasi sempre. E poi mi viene da dire “La metà di niente” di Catherine Dunne, che avrei davvero potuto scrivere io visti l’argomento trattato, e “Paura di volare” di Erica Jong».
Ora che sei diventata una scrittrice famosa, cosa si prova a tornare a presentare i tuoi libri in una piccola libreria di Cernusco?
«Per me è normale. Le delusioni maggiori sono state proprio nelle grandi librerie che peraltro un po’ mi terrorizzano. I piccoli librai, meglio ancora se sono indipendenti, li preferisco e poi mi ricordano molto i miei inizi quando mi organizzavo da sola le presentazioni. Anche ora che mi conosce più gente le grandi librerie restano più a rischio, puoi anche trovarti quasi senza pubblico. L’eccezione è Genova dove anche in quelle faccio il pieno, ma è facile: metà sono miei parenti e l’altra metà i miei ex compagni di scuola».
In primavera dovrebbe uscire il tuo nuovo romanzo. Posso chiederti qualche anticipazione?
«Certamente anche se il titolo non è ancora definitivo. È una storia fortissima di una donna conosciuta a una presentazione. Mi ha avvicinato e mi ha raccontato che negli anni 90 era stata segregata dal marito. Ci siamo scambiati i numeri di telefono e un paio di estati fa ho preso l’auto, mi sono fatta circa 500 chilometri e sono andata a trovarla. Mi ha regalato la storia giusta. E quando dico regalato è nel vero senso della parola perché lei non vuole essere la protagonista, non cerca gloria. Parlarne per lei è stato quasi terapeutico e credo che ora stia meglio. Le ho chiesto se potevo farla diventare un libro, naturalmente rispettando l’anonimato e mi ha dato il permesso».
Un’ultima cosa: e quella laurea in biologia resta nel cassetto, vero?
«Per ora mi serve quando devo scrivere dei passaggi che hanno a che fare con la scienza. E poi mi ha mantenuto per quindici anni. Si può tranquillamente dire che il suo sporco lavoro l’ha fatto».
Roberto Pegorini