16 Novembre 2017

Tutto è iniziato quando la mia professoressa di italiano un giorno è entrata in classe giù di morale e ci ha spiegato il motivo: le mancava sua figlia, che stava trascorrendo il suo quinto mese negli Stati Uniti in veste di exchange student. Credo che mi si siano illuminati gli occhi per un istante. Da quel giorno della terza media ho assillato i miei genitori, parenti, amici per convincerli che anche io avrei speso il quarto anno di liceo all’estero. Non lo chiedevo, ne ero certa: era qualcosa che avrei fatto senza alcun dubbio, senza ripensamenti. All’inizio ridevano quasi tutti, credo che pochissimi mi abbiano creduto subito. Poi hanno iniziato a prendermi sul serio, fino al fatidico giorno in cui mia mamma ha detto: «Se vuoi davvero partire informati su come fare e poi vediamo insieme». Dopo un anno e un milione di moduli da compilare, sono atterrata negli States, per la precisione a Alma, Illinois. Si dice che ci voglia del tempo per concepire la grandezza di questa avventura e che si realizzi davvero la sua importanza la mattina stessa in cui ci si sveglia in un altro letto, un’altra casa, un altro Stato, Paese, continente. Ho passato gli ultimi mesi in Italia cercando di elaborare il concetto, di salutare tutti senza dimenticare nessuno, di ringraziare chiunque mi abbia appoggiato e ascoltato fantasticare fin dall’inizio. Un po’ come un attore che vince un Oscar, avevo paura di non godermi il momento a pieno, di non dimostrarmi abbastanza riconoscente. Nell’ultimissimo periodo avevo anche paura di non farcela: più volte non riuscivo a dormire e mi rigiravo nel letto con la convinzione che non sarei mai arrivata a destinazione, che mi sarei aggrappata ai miei genitori in aeroporto come una bambina, che all’ultimo minuto mi avrebbero fermato alla dogana perché mi mancava un vaccino o un qualche timbro sul passaporto. Ho messo in dubbio per la prima volta di riuscire a partire. Una sera ho detto alle mie amiche che in quel momento mi sentivo troppo felice per andarmene. La mattina dopo avevo già cambiato idea: ero davvero contenta, ma pensavo a quante altre soddisfazioni e gioie avrei potuto accumulare partendo. Era il mio traguardo. Ogni volta che salutavo un mio amico per l’ultima volta poi sorridevo, non ho mai pianto, perché mi accorgevo di volergli davvero bene per la prima volta, mi accorgevo che forse ero pronta a lasciarlo, perché poi ci saremmo ritrovati. Così sono partita, ho affrontato il viaggio da sola e sono arrivata. Primo pensiero del primo giorno negli Usa: ce l’ho fatta. In realtà però c’era ancora tanto da fare, la maggior parte delle difficoltà da incontrare e affrontare, ma io ancora non lo sapevo. Tra le tante cose, dicono anche che vivere un anno scolastico all’estero sia come un lunghissimo giro sulle montagne russe, con i suoi picchi culminanti e i suoi abissi precipitosi. Nulla di più vero. Solo nei primi giorni ho vissuto gli istanti migliori e i peggiori, condensati in un fiume inarrestabile di emozioni. Ma col tempo tutto si sta stabilizzando; non sono mai stata tanto agitata per l’inizio della scuola, ma si sta rivelando l’inizio di un’avventura pazzesca.