19 Aprile 2019

Giovedì scorso il De Sica si è acceso del talento di Francesco Manara, primo violino dell’orchestra del Teatro alla Scala di Milano, in un evento organizzato dal comune di Peschiera e dall’Associazione dei Poeti Erranti, in collaborazione con la scuola civica di musica Prina e l’organizzazione culturale Clavicembalo Verde. E proprio con Manara abbiamo fatto una lunga chiacchierata. Eccola.
Domanda secca per sciogliere il ghiaccio: perché proprio il violino?
«Da piccolo ero affascinato dal fatto che uno strumento così piccolo potesse creare musiche così polifoniche e sonorità così belle e profonde».
Quindi ha iniziato molto presto?
«In realtà no, in questo mondo a 10 anni si è già un po’ in ritardo».
E com’è stato l’approccio con la musica?
«Vengo da una famiglia di avvocati, molto appassionati di lirica e musica classica. A mio padre non fu permesso di diventare un musicista quindi ha riversato il suo sogno su di me, incoraggiandomi sempre e facendomi ascoltare Mozart, Bach e Wagner fin da bambino».
Un bambino che sarebbe diventato presto un grande...
«Se dovessi scrivere una biografia la intitolerei “Scalata infinita”, perché in realtà il percorso è stato lungo, duro e ancora non mi sento affatto arrivato».
Beh... Qualche importante traguardo è stato però raggiunto, o sbaglio?
«Traguardi da raggiungere e punti di svolta ce ne sono tutti i giorni. Sicuramente quando ho vinto il concorso, grazie al quale sono entrato alla Scala, ho raggiunto un obiettivo importante, ma se devo identificare un vero momento che mi ha cambiato la vita direi il mio incontro con il maestro Riccardo Muti».
Com’è andata?
«Era l’ultima prova per accedere all’orchestra del teatro milanese. Lui aveva capito che ero ancora molto giovane e, quindi, incosciente. A quel tempo miravo principalmente a una carriera solistica e lui mi ha fatto capire che era l’orchestra la vera famiglia artistica che stavo cercando. “La vita in teatro è ricca di soddisfazioni e delusioni, ma noi cresceremo insieme passo dopo passo”, mi disse. Già, posso proprio dire che il maestro Muti mi ha cambiato la vita».
Immagino che dal punto di vista artistico quella deve essere stata l’emozione più grande...
«In realtà il sentimento più forte che ho provato è stato quando sono sceso nella buca d’orchestra alla Scala per la prima volta. Ero solo, il teatro era vuoto e dovevo solo provare un violino del ‘600, che poi avrei comprato. Sentire quel suono riempire il teatro vuoto è stato qualcosa di indescrivibile».
Un violino del ‘600! Chissà quali grandi artisti l’avranno suonato. Lei a quali musicisti del passato si ispira?
«Come violinista credo che il suono del mio strumento debba cantare imitando la voce umana, magari rendendola il più potente e rotonda possibile. Detto questo, ho sempre guardato alle grandi voci di Maria Callas, Renata Tebaldi, Tito Schipa e Beniamino Gigli; voci dolci e potenti allo stesso tempo, voci di una qualità immensa. Se devo scegliere un violinista, dico il polacco Henryk Szeryng, non troppo famoso ma originale, profondo e lontano da forzati virtuosismi».
Cambiamo discorso. L’altra sera al De Sica è stato un successo. Che impressioni ha avuto?
«La sala gremita non capita sempre e quando accade è uno spettacolo bellissimo ed emozionante. Ma la cosa che mi ha sorpreso più di tutte è stata la curiosità, l’attenzione e la partecipazione con cui il pubblico e i ragazzi hanno interagito con me. Stupendo. Bisogna dare atto alla scuola civica di musica Prina di stare facendo un ottimo lavoro con i giovani in tempi in cui la nostra arte fatica a trovare gli spazi che merita».
Crede che esista una sorta di crisi culturale in questo senso?
«Purtroppo sì. Esiste un movimento di giovani volenterosi e appassionati, ma la musica non è più al centro dell’attenzione come una volta o come accade in altri paesi come la Germania. L’Italia è la culla dell’opera e la patria della musica, dobbiamo ricordarcelo».
A cosa è dovuto secondo lei?
«I media non sono interessati a trasmettere la bellezza di questa musica. Così i cori e le orchestre sono costretti a chiudere e per i musicisti non ci sono posti di lavoro. Tutto questo si ripercuote anche sul livello dei conservatori e sugli stipendi degli addetti ai lavori. Suonare rischia di non essere più una vocazione e di sparire dalla nostra educazione. Dobbiamo evitare tutto ciò».
Ci saranno, però, delle realtà che ancora resistono, no?
«Certo, ci sono scuole, teatri e associazioni che non mollano. Dovremmo ripartire da lì».
Ultima curiosità prima di lasciarla alla sua meritata vacanza, dopo l’ultimo concerto in Polonia: sappiamo che ha avuto il piacere di suonare i contesti particolari come sulle Dolomiti o luoghi devastati dalla guerra. Dove sogna di esibirsi in futuro?
«Ad Aushwitz. Lo so, può sembrare strano e macabro, ma suonare aiuta a ricordare e la musica deve svolgere anche questo importante ruolo sociale. Ci andrò in occasione del mio cinquantesimo compleanno».
Mattia Rigodanza